Charlie Brown
"Solo gli imbecilli non hanno dubbi"
"Ne sei sicuro ?"
"Non ho alcun dubbio!"
(Luciano De Crescenzo)
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La copertina dell'albo La lunga fuga
Diabolik è un uomo molto particolare e, nei 900 e passa albi che si sono succeduti in sessantadue anni di storie (quest’anno il sessantatreesimo), gli autori – le sorelle Giussani per prime – non hanno mai mancato di marcare la sua peculiarità.
Un esempio di queste storie è La lunga fuga.
Ci troviamo nel Beglait, Stato di appartenenza di Altea di Vallenberg, compagna di Ginko. Diabolik è lì (precisamente nel castello di Altea) sotto le sembianze di Lodovico, il fedele maggiordomo della duchessa. Il motivo, futile a dirlo, è per rubare una collana di rubini e diamanti che Margherita Di Rennert riceverà dal re del Beglait in occasione delle sue nozze. Il gioiello verrà consegnato nella dimora della duchessa di Vallenberg durante una festa, e resterà chiuso nella cassaforte per qualche ora. Altea è sempre stata contraria allo sfoggio delle ricchezze da parte dei nobili della sua città, nondimeno ha accettato che il prezioso monile venisse consegnato in casa sua pur non condividendo la decisione. Da un po’ di tempo infatti nel Beglait vi sono accese contestazioni da parte della popolazione, stanca della maniera con cui viene utilizzato il denaro da parte del governo, finalizzato solo a soddisfare i vizi e i capricci dei nobili a discapito della povera gente. Il clima di odio diventa ogni giorno più aspro, ragion per cui Eva suggerisce a Diabolik di fare molta attenzione durante il colpo perché il pericolo di una rivoluzione potrebbe essere in agguato.
Una tavola dell'albo: disegni di Flavio Bozzoli e chine di Lino Jeva
Come con Diabolik, anche con Eva le autrici hanno fortemente voluto che i lettori sapessero sin da subito chi è, nella coppia, quella ad essere dotata di un grande intuito, dote che è stata decisiva (e che ancora oggi continua ad esserlo) in molti furti compiuti dal Re del Terrore, e che gli ha permesso in numerose circostanze di salvarlo dallo spettro della ghigliottina.
Alla fine la rivoluzione esplode, le dimore dei nobili vengono prese d’assalto e questi sono costretti a fuggire. Altea si serve di un passaggio segreto situato all’interno del castello che consente a lei, a Lodovico (Diabolik) e a Marta la cameriera, di scappare per trovare rifugio a casa di amici fidati della duchessa. Tuttavia, una volta fuori, i tre si accorgono che la situazione è più grave di quanto avessero immaginato perché alcune ville sono già state assediate. Marta decide di mettersi in salvo da sola, Diabolik invece è deciso non solo a salvare Altea – che lo ha salvato a sua volta – ma anche ad impossessarsi dei gioielli che la donna porta con sé, una volta raggiunto il confine. Il percorso per raggiungere Clerville è lungo e tortuoso, Altea e Lodovico sono costretti a giungervi per vie traverse inerpicandosi tra boschi e colline per non farsi scoprire e acciuffare dai ribelli. Diabolik escogita un piano per trarre in inganno i loro nemici: basta che Altea si leghi in testa il fazzoletto che porta al collo e che si sporchi le mani di terra in modo che sembri una contadina. Non basta però: deve spezzarsi le unghie sfregandole sulle rocce visto che le sue sono le mani curate di una donna nobile e darebbe nell’occhio. Per quanto riguarda lui, basta togliere la giacca da maggiordomo e fingere che siano padre e figlia così, chiunque possa incontrarli, non avranno sospetti sulla loro reale identità.
Nel tragitto succede di tutto. Diabolik è costretto a fronteggiare un uomo di campagna intenzionato ad ucciderli appena scopre che avevano trovato rifugio nel suo capannone credendo che fossero dei ladri. In realtà Altea è molto stanca, ha persino qualche linea di febbre e, in svariati momenti, chiede a Lodovico di fermarsi perché non si sente in forze per proseguire il cammino. Seppur riluttante, Diabolik la asseconda in ogni sua esigenza; durante la fuga avrà anche modo di scoprire la forza di carattere e il sangue freddo della duchessa in una situazione in cui pensava che fossero ormai spacciati.
Anche Ginko non se ne sta con le mani in mano. Appreso della rivoluzione in atto e preoccupato per le sorti della sua amata di cui non ha più notizie, parte per Lusten. Sulla strada, però, trova un ostacolo: si tratta di Michele Starr, capo dei rivoluzionari che, con una gentile scusa, lo rispedisce a Clerville. Quando al termine di tutto Altea e Lodovico avranno raggiunto il confine e saranno in salvo, sia Ginko, sia Eva potranno tirare un sospiro di sollievo nel poter riabbracciare i propri compagni.
Bellissime sono le ultime scene con cui si chiude la storia. Altea confessa a Lodovico di sapere chi è realmente e, stanca e riconoscente, ne approfitta per dargli i gioielli. Diabolik li rifiuta, ma le confessa che non è detto che in futuro non venga a riprenderseli, sottolineando ancora una volta la sua natura di ladro e di fuorilegge che non prende ordini da nessuno. “Dove vai adesso?” gli chiede dopo che il criminale le ha indicato una cabina telefonica poco distante dove può mettersi in contatto con Ginko, “Duchessa, non percorriamo più la stessa strada” le risponde con un sorriso sulle labbra prima di lasciarla e di correre dalla sua Eva.
Una volta in commissariato, sfinita ma viva, l’ispettore abbracciandola le domanda come abbia fatto a fuggire dal Beglait e mettersi in salvo. “Mi ha aiutata un uomo”, risponde Altea. “E dov’è ora?”, chiede Ginko. “Se ne è andato”, “Peccato, avrei voluto sdebitarmi con lui. Sai dirmi chi era?”
“Un tipo strano… anche io non sono riuscita a sdebitarmi”.
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Un giorno, durante una lezione al laboratorio di scrittura¹, sorse una discussione.
Tutto partì dal racconto di un frequentante dove, al termine della lettura, scoprimmo che nella storia non accadeva nulla.
L’animatore del laboratorio (che da questo momento chiameremo S.) gli chiese se ci fosse un seguito. Il ragazzo – di cui non ricordo il nome ma il titolo del racconto – gli rispose stoicamente no.
Scoppiò l’insurrezione. Non era possibile e nemmeno immaginabile pensare che in una storia non potesse accadere nulla. Il frequentante, con una imperturbabilità spiazzante (tanto quanto il suo ragionamento, come scoprimmo più tardi) rispose che non ci vedeva nulla di male se in una storia non succedeva nulla perché, stando a quanto disse, nella realtà ci sono molti contesti in cui non accade niente. Gran parte dei partecipanti assieme a S., ovviamente, non era d’accordo. Solo a discussione conclusa qualcuno cambiò opinione, tra i restanti ci fu chi rimase fedele al proprio convincimento e chi iniziò a titubare (quando dico titubare significa che cominciò a farsi cogliere dal dubbio, e a riflettere prendendo in considerazione la circostanza che ci era stata appena raccontata).
La cosa mi colpì. E mi colpì la tenacia del ragionamento.
S. era convinto che quello che leggevamo non era letteratura, pertanto, se volevamo scrivere e sentivamo l’esigenza di raccontare qualcosa, dovevamo saper sondare ogni aspetto in ogni suo dettaglio. Solo così saremmo riusciti a cogliere l’essenza di ciò che ci circonda avvicinandoci alla verità (e quindi al significato dell’esistenza).
Il suo era un laboratorio che caricava di molta rilevanza il particolare (una scarpa slacciata, la guglia di un campanile, il colore, la forma, la consistenza dei petali di un fiore, un particolare tipo di odore o cibo ecc.). Ricordo che durante il corso ci obbligava a vivere delle vere esperienze sensoriali legate al gusto (c’era chi portava la pizza, torte fatte in casa, panini, rustici, che mangiavamo nei momenti di pausa o a fine lezione), agli odori (il corso si svolgeva anche nei parchi, avevamo una sede fissa ma capitava che ci spostassimo per la città), ai suoni, al tatto. Una volta trascorremmo mezz’ora a toccarci le mani col nostro/a compagno/a di banco prima di metterci a scrivere allo scopo di familiarizzare con le sensazioni che suscitava quel gesto e affidarle al foglio bianco.
S. era dell’idea che troppe parole nei libri sono sprecate. Non erano le parole ad essere importanti, ma le immagini e i dettagli.
E il modo in cui venivano descritti o la descrizione di una scena che si svolgeva tra due persone diceva tante cose, senza andare a sovraccaricare il testo con le parole o le metafore.
Quella era la Letteratura. La vita. L’essenziale.
«Non me lo devi dire, me lo devi far vedere» diceva sempre quando uno dei frequentanti si perdeva nella sovrabbondanza delle similitudini, dei chiasmi, delle iperbole, delle anafore. Il personaggio era una identità aliena(dal latino: alienus “altrui”) che non corrispondeva all’autore.
Aveva sentimenti, provava emozioni come la mano che lo generava, ma non erano la stessa persona (il personaggio non era l’alter ego dell’autore o il suo avatar). Erano persone ben distinte, con i loro difetti, pregi, caratteri. Perché ogni persona è unica, ha la sua caratterizzazione. Non si può ripetere.
Anche la rabbia, il dolore, l’amore, la compassione, l’odio, la gelosia, avevano la loro pellicola. Non erano parole che servivano a costruire allegorie per riempire le pagine del quadernetto. Tutto quello di cui c’era bisogno era “a portata d’occhi”. Bastava fotografarlo con lo sguardo.
Sono passati quasi vent’anni dalla frequentazione del laboratorio di scrittura con S., dopo tanto tempo mi chiedo se non avesse ragione lui quando banchettavamo argomentando di letteratura e scrittura. Del resto, alcuni grandi autori del passato, prima di essere scrittori, erano anche fotografi, disegnatori, pittori.
Come a dire: ho visto una cosa, te la descrivo così come l’ho vista, con tutte le sue minuzie. Adesso trai le tue conclusioni. Lasciando a me (lettore) il compito di tirare fuori le mie impressioni, tu (autore) mi doni il massimo della libertà: quella di far decidere a me il finale della storia. Tu (autore) sei il tramite, lo strumento, l’ “occhio” che mi consente di osservare (badate bene: osservare, non guardare) la scena che si sta svolgendo davanti a me e di darne un’interpretazione (è la magia del teatro).
Ne discende che quella storia, o quel libro, non sarà «il romanzo di» ma «un romanzo» che reca con sé più mondi possibili e infiniti.
Chiudiamo parentesi e facciamo un passo indietro. Torniamo al testo in cui non accade nulla.
Il racconto si chiamava “Prosit”. Un gruppo di gente si recava ad una cerimonia e, al di là dei brindisi e dei festeggiamenti accompagnati dai dialoghi, non succedeva appunto nulla.
Il primo a far notare questa cosa all'autore fu S., l'artefice del racconto gli disse ciò che ho scritto poc’anzi. Non per forza nella vita di alcune persone accade qualcosa.
Tralascio la lunga discussione che ne seguì soffermandomi, invece, sul pensiero dell’allora nostro compagno di laboratorio (che si stava allineando, come tutti i discepoli, su quello di S.).
Se la letteratura è (ed era, come stavamo imparando a concepirla) un insieme di esperienze individuali con cui è dato interfacciarsi per comprendere meglio se stessi e gli altri attraverso il proprio vissuto, considerata la molteplicità degli individui nel mondo e sempre tenendo bene a mente che ogni essere è unico, come è unica la sua esistenza e la direzione che essa imbocca, è allora possibile che taluni frammenti non abbiano il loro baluginio o non subiscano scossoni. La letteratura è un vasto bacino che comprende migliaia di “utenze”, il numero dei suoi abitanti è pari a quello che c’è sulla Terra; ora, se essa (letteratura) rispecchia in toto la realtà (perché racconta di esseri viventi che mangiano, bevono, fanno l’amore, coltivano degli hobby, si recano a lavoro o a scuola ecc.), altrimenti fittizia, perché dovremmo mai scandalizzarci se nella vita di alcune persone non succede niente di niente?
Rimasi rapita dal ragionamento (che non faceva una piega).
Al di là di alcuni (esigui) generi letterari – come i gialli e le favole – dove per forza deve accadere qualcosa, in tutti gli altri casi è possibile – se non doveroso – derogare alla regola.
La letteratura parla, e ci parla di noi. Siamo tanti, c’è chi è romanzo e chi è racconto. Non siamo tutti lo stesso libro.
Ho letto testi dove non capitava nulla, e testi opulenti di colpi di scena. I secondi, è retorico dirlo, sono quelli che rispetto ai primi riscuotono più successo.
Cos’è la letteratura?
¹ In un mio precedente post avevo parlato di laboratorio di scrittura creativa. In realtà si trattava solamente di un laboratorio di scrittura che non aveva nulla a che fare con la creazione di una storia, in quanto ci si limitava a riprodurre la realtà restando fedeli quanto più possibile ad essa.
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"Benvenuti a teatro,
dove tutto è finto
ma niente è falso."
(Gigi Proietti)
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