Charlie Brown

"Solo gli imbecilli non hanno dubbi"
"Ne sei sicuro ?"
"Non ho alcun dubbio!"
(Luciano De Crescenzo)


Prosit



Un giorno, durante una lezione al laboratorio di scrittura¹, sorse una discussione.

Tutto partì dal racconto di un frequentante dove, al termine della lettura, scoprimmo che nella storia non accadeva nulla.

L’animatore del laboratorio (che da questo momento chiameremo S.) gli chiese se ci fosse un seguito. Il ragazzo – di cui non ricordo il nome ma il titolo del racconto – gli rispose stoicamente no.

Scoppiò l’insurrezione. Non era possibile e nemmeno immaginabile pensare che in una storia non potesse accadere nulla. Il frequentante, con una imperturbabilità spiazzante (tanto quanto il suo ragionamento, come scoprimmo più tardi) rispose che non ci vedeva nulla di male se in una storia non succedeva nulla perché, stando a quanto disse, nella realtà ci sono molti contesti in cui non accade niente. Gran parte dei partecipanti assieme a S., ovviamente, non era d’accordo. Solo a discussione conclusa qualcuno cambiò opinione, tra i restanti ci fu chi rimase fedele al proprio convincimento e chi iniziò a titubare (quando dico titubare significa che cominciò a farsi cogliere dal dubbio, e a riflettere prendendo in considerazione la circostanza che ci era stata appena raccontata).

La cosa mi colpì. E mi colpì la tenacia del ragionamento.

S. era convinto che quello che leggevamo non era letteratura, pertanto, se volevamo scrivere e sentivamo l’esigenza di raccontare qualcosa, dovevamo saper sondare ogni aspetto in ogni suo dettaglio. Solo così saremmo riusciti a cogliere l’essenza di ciò che ci circonda avvicinandoci alla verità (e quindi al significato dell’esistenza).

Il suo era un laboratorio che caricava di molta rilevanza il particolare (una scarpa slacciata, la guglia di un campanile, il colore, la forma, la consistenza dei petali di un fiore, un particolare tipo di odore o cibo ecc.). Ricordo che durante il corso ci obbligava a vivere delle vere esperienze sensoriali legate al gusto (c’era chi portava la pizza, torte fatte in casa, panini, rustici, che mangiavamo nei momenti di pausa o a fine lezione), agli odori (il corso si svolgeva anche nei parchi, avevamo una sede fissa ma capitava che ci spostassimo per la città), ai suoni, al tatto. Una volta trascorremmo mezz’ora a toccarci le mani col nostro/a compagno/a di banco prima di metterci a scrivere allo scopo di familiarizzare con le sensazioni che suscitava quel gesto e affidarle al foglio bianco.

S. era dell’idea che troppe parole nei libri sono sprecate. Non erano le parole ad essere importanti, ma le immagini e i dettagli.

E il modo in cui venivano descritti o la descrizione di una scena che si svolgeva tra due persone diceva tante cose, senza andare a sovraccaricare il testo con le parole o le metafore.

Quella era la Letteratura. La vita. L’essenziale.

«Non me lo devi dire, me lo devi far vedere» diceva sempre quando uno dei frequentanti si perdeva nella sovrabbondanza delle similitudini, dei chiasmi, delle iperbole, delle anafore. Il personaggio era una identità aliena(dal latino: alienus “altrui”) che non corrispondeva all’autore.

Aveva sentimenti, provava emozioni come la mano che lo generava, ma non erano la stessa persona (il personaggio non era l’alter ego dell’autore o il suo avatar). Erano persone ben distinte, con i loro difetti, pregi, caratteri. Perché ogni persona è unica, ha la sua caratterizzazione. Non si può ripetere.

Anche la rabbia, il dolore, l’amore, la compassione, l’odio, la gelosia, avevano la loro pellicola. Non erano parole che servivano a costruire allegorie per riempire le pagine del quadernetto. Tutto quello di cui c’era bisogno era “a portata d’occhi”. Bastava fotografarlo con lo sguardo.

Sono passati quasi vent’anni dalla frequentazione del laboratorio di scrittura con S., dopo tanto tempo mi chiedo se non avesse ragione lui quando banchettavamo argomentando di letteratura e scrittura. Del resto, alcuni grandi autori del passato, prima di essere scrittori, erano anche fotografi, disegnatori, pittori.

Come a dire: ho visto una cosa, te la descrivo così come l’ho vista, con tutte le sue minuzie. Adesso trai le tue conclusioni. Lasciando a me (lettore) il compito di tirare fuori le mie impressioni, tu (autore) mi doni il massimo della libertà: quella di far decidere a me il finale della storia. Tu (autore) sei il tramite, lo strumento, l’ “occhio” che mi consente di osservare (badate bene: osservare, non guardare) la scena che si sta svolgendo davanti a me e di darne un’interpretazione (è la magia del teatro).

Ne discende che quella storia, o quel libro, non sarà «il romanzo di» ma «un romanzo» che reca con sé più mondi possibili e infiniti.

Chiudiamo parentesi e facciamo un passo indietro. Torniamo al testo in cui non accade nulla.

Il racconto si chiamava “Prosit”. Un gruppo di gente si recava ad una cerimonia e, al di là dei brindisi e dei festeggiamenti accompagnati dai dialoghi, non succedeva appunto nulla.

Il primo a far notare questa cosa all'autore fu S., l'artefice del racconto gli disse ciò che ho scritto poc’anzi. Non per forza nella vita di alcune persone accade qualcosa.

Tralascio la lunga discussione che ne seguì soffermandomi, invece, sul pensiero dell’allora nostro compagno di laboratorio (che si stava allineando, come tutti i discepoli, su quello di S.).

Se la letteratura è (ed era, come stavamo imparando a concepirla) un insieme di esperienze individuali con cui è dato interfacciarsi per comprendere meglio se stessi e gli altri attraverso il proprio vissuto, considerata la molteplicità degli individui nel mondo e sempre tenendo bene a mente che ogni essere è unico, come è unica la sua esistenza e la direzione che essa imbocca, è allora possibile che taluni frammenti non abbiano il loro baluginio o non subiscano scossoni. La letteratura è un vasto bacino che comprende migliaia di “utenze”, il numero dei suoi abitanti è pari a quello che c’è sulla Terra; ora, se essa (letteratura) rispecchia in toto la realtà (perché racconta di esseri viventi che mangiano, bevono, fanno l’amore, coltivano degli hobby, si recano a lavoro o a scuola ecc.), altrimenti fittizia, perché dovremmo mai scandalizzarci se nella vita di alcune persone non succede niente di niente?

Rimasi rapita dal ragionamento (che non faceva una piega).

Al di là di alcuni (esigui) generi letterari – come i gialli e le favole – dove per forza deve accadere qualcosa, in tutti gli altri casi è possibile – se non doveroso – derogare alla regola.

La letteratura parla, e ci parla di noi. Siamo tanti, c’è chi è romanzo e chi è racconto. Non siamo tutti lo stesso libro.

Ho letto testi dove non capitava nulla, e testi opulenti di colpi di scena. I secondi, è retorico dirlo, sono quelli che rispetto ai primi riscuotono più successo.

Cos’è la letteratura?




¹ In un mio precedente post avevo parlato di laboratorio di scrittura creativa. In realtà si trattava solamente di un laboratorio di scrittura che non aveva nulla a che fare con la creazione di una storia, in quanto ci si limitava a riprodurre la realtà restando fedeli quanto più possibile ad essa.

Autrice : Carla Iannacone | Categoria : Riflessioni