Charlie Brown

"Solo gli imbecilli non hanno dubbi"
"Ne sei sicuro ?"
"Non ho alcun dubbio!"
(Luciano De Crescenzo)


Il pianto dell’alba di Maurizio de Giovanni – Diabolik, Vuoto di memoria (albo n. 9 del settembre 2001)



Menu del giorno: fritto misto. Con spoiler come contorno delle portate.

Chi non gradisce è pregato di alzarsi dal tavolo e saltare di qualche blog più avanti, altrimenti attendere il servizio e gustare le pietanze proposte dalla casa.

I piatti del giorno sono un libro e un fumetto. Nome dei piatti? (Immaginate che ve lo domandi con la sua voce baritonale lo Chef Antonino Cannavacciuolo, n.d.a.)

Il pianto dell’alba (di Maurizio de Giovanni, serie de Il commissario Ricciardi) con Vuoto di memoria (Diabolik, inedito del settembre 2001).

Il menu non prevede antipasto, solo stuzzichini per mettere a tacere un po’ lo stomaco.

Primo piatto: Il pianto dell’alba. Ultima ombra per il commissario Ricciardi.

È l’ “ultima” indagine del commissario dagli occhi verdi d’acquamarina dato che il romanzo, il dodicesimo della serie, nelle intenzioni dell’autore doveva essere quello conclusivo.

Luigi Alfredo, fresco di nozze con la sua Enrica, sta vivendo dei momenti bellissimi che riteneva gli sarebbero stati per sempre preclusi dal destino per colpa della sua maledizione (alias “Il Fatto”, ovvero riuscire a vedere le anime di coloro che sono stati ammazzati di morte violenta e di sentire il loro ultimo pensiero prima di morire,). Non solo la sorte gli ha regalato l’amore della sua vita, che contraccambia con la stessa intensità il suo sentimento, ma, a quanto pare, per i due sposini ha in serbo un altro splendido dono: Enrica è incinta e a breve darà alla luce il frutto del loro amore. Nell’attesa che il lieto evento si avvicini, Ricciardi si trova, al contempo, alle prese con l’ultimo caso da risolvere: la vittima questa volta è il maggiore Manfred Kaspar Von Brauchitsch, l’uomo che gli ha dato “filo da torcere” nella storia sentimentale con la sua attuale moglie. Ma le sorprese non finiscono qui perché sembra che ad ucciderlo sia stata la mano di Livia Lucani vedova Vezzi, da sempre innamorata di Ricciardi, con cui aveva una relazione.

Non è dell’indagine che qui ci occuperemo (è superfluo, oltre che retorico e inutile visto che la stragrande maggioranza di voi – almeno me lo auguro – ha letto tutti i libri di de Giovanni) né di analizzare pagina per pagina ogni avvenimento del romanzo, eccezion fatta per il capitolo che chiude il libro in cui Ricciardi vede per la prima volta sua figlia adagiata tra le braccia di una donna che non è sua madre che, invece, gli sta parlando nelle sembianze di uno spirito.

Occhi neri o occhi verdi?

È il “mantra” che accompagna Luigi Alfredo dalla prima all’ultima pagina dell’opera come se, ancora incredulo per la felicità che gli è piovuta addosso, avesse bisogno di restare ancorato coi piedi per terra e ricordare a se stesso che lui, o i membri della sua famiglia, non possono sfuggire alla maledizione, che in qualche modo il dolore convivrà sempre con ciascuno di loro; per questo spera che la nascitura – perché Enrica ha già capito che è una bambina, e se lo dice lei è così – abbia gli occhi neri della mamma. Se così non fosse, e quindi se ereditasse il colore verde dei suoi occhi, allora vorrà dire che la creatura si porterà appresso la sua stessa condanna.

Tuttavia ne Il pianto dell’alba non ci sarà il tempo di scoprirlo (i lettori ne saranno resi edotti solo con Caminito, il primo dei tre volumi che chiude definitivamente il ciclo de Il commissario Ricciardi). Tutto resta sospeso, a mezz’aria, appeso all’istante che dilava la notte, la asciuga dalla gravità e dall’afa del buio. È un momento che taglia di netto la paura, l’ansia, la fatica, il dolore (fisico), come taglia di netto il cordone ombelicale che unisce una vita che muore e un’altra che nasce sul filo dell’alba. Nell’attimo in cui una cede il posto all’altra la morte indietreggia, si fa sparuta, la sua ombra diventa piccola. C’è la luce che avanza ed è venuta per divorarla… all’inizio è solo una debole striscia nel cielo che diviene man mano più forte per reclamare il suo posto nel mondo.

Questo contrasto tra una vita che arriva e un’altra che se ne sta andando mi ha lasciata di sasso, e non perché simili avvenimenti non accadono (purtroppo!) e non sono accaduti in passato durante un parto, ma per due ragioni. Una è l’imprevedibilità, e cioè succede quello che non ti aspetti – anzi che non vuoi proprio – che succeda.

L’altra ragione, se vogliamo, è delle più banali. L’emotività. Il dolore e il coinvolgimento che ho avvertito e vissuto nel dramma di Luigi Alfredo Ricciardi.

Quando nel cuore della notte Enrica si accorge che la bimba non ne vuole più sapere di stare nella pancia della mamma, e pertanto viene accompagnata in ospedale, il lettore intuisce subito che qualcosa non andrà per il verso giusto e che la disgrazia tanto temuta è alle porte. Nei momenti concitati che precedono l’ingresso al nosocomio, e che perdurano fino al tragico epilogo, si vive un’ansia crescente sperando, fino alla fine, di sbagliare le previsioni. Le mani si tengono alle pagine del libro e le si stringe come se si stessero stringendo le barre laterali di un letto, il cuore aumenta i battiti e si va in iperventilazione. Gli occhi si spalancano, si comincia a sudare, hai la tremarella… borbotti frasi senza senso e nel frattempo pensi “come hai potuto?” (domanda che compare anche nel primo capitolo del romanzo), “come è possibile? No, non puoi fare questo…no…no… non adesso” (le domande sono rivolte all’autore, n.d.a.) il tutto mentre ti senti stringere un nodo alla gola.

Ma non puoi muoverti, non puoi. Non puoi perché speri di aver letto male. Allora torni indietro, ricomincia il calvario (mannaggia alla pupazza! Ma chi me l’ha detto a me stamattina di portamme appresso ‘sto libro e rovinarmi questa bella giornata di sole…), ari-sudi, ari-tremi, sbatti i pugni, le mani, i pedi (solo in senso metaforico però perché sei paralizzata dall’angoscia) e se ti fosse rimasto metà respiro ti metteresti pure a urlare (ma siccome hai esaurito tutte le energie vitali resti impalata come un’ebete e diventi tutt’uno con la panchina dove sei seduta, stile statua di Gabriele D’annunzio a piazza della Borsa a Trieste).

Invece non urli, perché la tragedia alla quale hai appena assistito ti lascia svuotata, tristemente svuotata, tanto che – dopo aver chiuso il libro – ti metteresti a girovagare per ore in uno dei giardini più famosi di Roma sul colle Aventino, in una calda giornata di agosto, desiderando solo che tutta quella sofferenza e quel dispiacere ti scivolino di dosso invece di restarti incollati sulla pelle e nell’animo come magneti, e che l’abbraccio del sole ti scaldi e ti ricomponga il cuore dopo che è scesa la mannaia (queste, in sintesi, le sensazioni che ho vissuto al termine della lettura).



Copertina di Sergio e Paolo Zaniboni


Secondo piatto: Diabolik, Vuoto di memoria.

Anche in questo caso l’episodio non è dei più allegri, sia per la sua caratterizzazione sia per la sorte dei personaggi coinvolti nella vicenda.

A colpo concluso Diabolik ed Eva, per un contrattempo, rimangono intrappolati nella tana del nemico: un nemico molto pericoloso, violento e spietato. L’unica alternativa che hanno per salvarsi è che solo uno dei due si dia alla fuga, senza aspettare l’altro. Diabolik decide che sia Eva a farlo, così Lady Kant scappa decisa a liberare il suo uomo quanto prima. Quello che non sa, purtroppo, è che nel tempo che le occorre per preparare un piano Lui verrà torturato, seviziato, pestato e ridotto a un fantoccio dai suoi carcerieri; alla sua riconsegna Diabolik – a causa delle botte e dei colpi ricevuti – non ricorda neanche più chi è, dove si trova, quali sono i suoi trucchi, i suoi rifugi, la formula per fabbricare le maschere, i marchingegni infernali per tenere lontano la polizia… è come un bambino, incapace di agire e reagire, che deve ricominciare a imparare tutto da capo. Tutto da zero.

Eva è straziata dal dolore nel vederlo così. Diabolik è irriconoscibile. Trascorre interi giorni senza perderlo di vista e insegnandogli ogni cosa con infinita pazienza.

Quando si accorge che l’uomo che vive accanto a lei non è il suo compagno ma uno che gli somiglia molto (e che alla fine si innamorerà di lei ma che, consapevole che Eva non lo amerà mai perché nel suo cuore c’è solo Diabolik, si toglierà la vita) vuole vederci chiaro, così ritorna nella tana del lupo per scoprire che fine abbia fatto Lui e per andare a riprenderselo. E anche qui… colpo di scena. Accade l’impensabile.

Eva viene messa al corrente dagli aguzzini che Diabolik sta molto male: il criminale giace in un letto in coma irreversibile. Anche se riuscisse a tirarlo fuori di lì, avrebbe poche possibilità di sopravvivenza considerate le condizioni in cui è ridotto. A quel punto ad Eva resta poco da fare, se non piangere in silenzio e assistere inerme e impotente alla fine del suo uomo mentre gli rimane accanto, e lo osserva su un asettico giaciglio bianco incosciente e privo di forze…


Una tavola tratta da Vuoto di memoria, disegni di Enzo Facciolo


Le storie (o i piatti) che ho scelto di raccontare sono uguali perché ciò che li accomuna è il sentimento di angoscia e di drammaticità che permea la vita dei protagonisti (trascinando in maniera molto, molto sentita anche il lettore/spettatore negli eventi), con la differenza che mentre nel fumetto la vicenda si conclude, al solito, positivamente, nonostante gli autori facciano patire il lettore fino all’ultima – ultimissima – pagina riguardo alle sorti di Diabolik (considerate che ogni albo diaboliko è composto da 122 pagine, siamo a pagina 119 e abbiamo Diabolik che è ancorain coma, comunque Diabolik in coma irreversibile nun se po’ senti’), nel romanzo di Maurizio de Giovanni Ricciardi non avrà la stessa fortuna. Quando sembrava fosse finalmente giunta un po’ di felicità anche per lui, il destino lo farà precipitare di nuovo nel baratro strappandogli il suo grande amore, pur se gliene regalerà un altro in un’altra veste che lo vedrà alle prese col ruolo di padre.

Caminito, Soledad e Volver infatti non sono altro che una finestra sul mondo della piccola Marta Ricciardi, baronessina del casato dei Malomonte.

Tre romanzi che per quanto apprezzati, poiché contrassegnati dalla dolcezza, dalla sensibilità d’animo e dalla signorilità dello scrittore la cui voce è riconoscibile in ogni rigo di ogni suo scritto, potevano essere risparmiati mettendo un punto alle vicende del commissario più affascinante della letteratura con Il pianto dell’alba.

Autrice : Carla Iannacone | Categoria : Recensioni | Commenti pubblicati dagli utenti : 0 | Data : 10/04/25

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Il ballo delle pazze di Victoria Mas


Marzo 1885. Ospedale di Salpêtrière a Parigi. Un manicomio femminile dove vengono relegate donne ritenute scomode più che pazze: prostitute, mogli, compagne che hanno ucciso i propri mariti o amanti, sovversive, anticonformiste; insomma donne ribelli e pericolose impossibili da gestire, rifiutate e dimenticate dalle famiglie, date alle “cure” dei medici e degli infermieri del dottor Charcot che presiede il nosocomio.

Dal Salpêtrière si entra e non si esce, tranne in rarissimi casi.

Tra le internate ci sono Thérèse, la decana delle alienate, un donnone ed ex prostituta che se ne sta tutto il giorno a lavorare a maglia coi ferri e a dispensare consigli alle altre degenti. Più saggia che pazza, Thérèse viene vista come una mamma – rinchiusa in manicomio per aver gettato il suo amante nella Senna –, tutto quello che avviene nell’istituto non sfugge al suo occhio vigile, ha sempre una buona parola per tutte ed ha un buon rapporto con le infermiere e gli infermieri.

Soggette a crisi isteriche, il più delle volte indotte durante le ore di lezione dall’équipe dei medici per i loro esperimenti e gli studi sulle poverette, sono tutte le altre internate. Tra queste c’è Louise, un’adolescente bandita dalla sua famiglia per tristi e sfortunate vicissitudini che continuano a perseguitarla anche all’interno dell’ospedale, dove è oggetto di attenzioni di Jules uno degli infermieri.

A capo del reparto c’è l’Anziana, ovvero Geneviève, un’infermiera che ha immolato la propria vita alla carriera di medico e con un lutto alle spalle che non è riuscita del tutto ad elaborare. Sua sorella Blandine è morta quando era ancora troppo giovane, dopo il trauma non più scomparso si è imposta di vivere con un certo rigore, atteggiamento che ha deciso di adottare anche col suo lavoro e col suo rapporto con le internate, perennemente sotto la sua osservazione.

Le giornate trascorrono tutte uguali tra passeggiate nel parco, pulizie dei luoghi comuni, rifacimento dei letti, esperimenti, veglie, dormite, pasti; l’unica iniziativa che concede alle donne un po’ di svago e serenità è il ballo di mezza quaresima che si svolge ogni anno al nosocomio, una vera e propria festa in maschera dove viene invitata tutta la Parigi bene, ossia un’occasione che consente di mischiare la borghesia con le alienate e di poter assistere anche agli esperimenti che vengono praticati nell’istituto. L’eccitazione per il ballo riempie le stanze e i corridoi le settimane prossime alla festa, alle internate viene data la possibilità di scelta dei costumi e di apportarvi anche modifiche con il ricamo e il cucito.

L’arrivo non previsto tra le alienate è quello di Eugénie Cléry, una ragazza di buona famiglia internata dal padre dopo che è stato messo al corrente che la stessa vede e parla con i defunti. L’Anziana delle infermiere, così come Thérèse, si accorge subito che Eugénie non è come le altre, la ragazza ne dà prova anche durante una lezione dimostrando di saper fronteggiare il gruppo dei luminari confutando le loro teorie. Sarà la stessa Eugénie ad aprire gli occhi all’Anziana, adusa ad assecondare le regole mediche ed “etiche” dell’ospedale – una linea di condotta e di pensiero che si allinea con quella del padre, medico neurologo ormai in pensione – a sconvolgerne le sorti e a costringerla a rivedere le sue convinzioni modellate su falsi giudizi atte a concepire la società come una realtà guidata e creata da soli uomini, che ne determinano le leggi e il destino.

Collera. Una rabbia intensa. È questo il sentimento che ha mi ha predominata durante la lettura di questo libro. Sentirmi addosso pesanti catene che lottavano per cambiare e modificare la mia natura perché mi impedivano di fare e dire quel che l’animo mi dettava di fare. Una sensazione orribile, che è poi la sensazione che accompagna ciascuno di noi, sempre: parlare o agire in un determinato modo e non venire compresi, solo perché io non vedo le cose come le vedi tu. Allora sei strana o strano. Peggio: sei pazzo o pazza. Perché non fai le cose come tutti gli altri. Perché non ti adegui, perché è così che stanno le cose e tu, che sei diverso o diversa, sei fuori dal mondo (visto? Non occorre essere uomo o donna per vivere le stesse situazioni o gli stessi stati d’animo).

Del ballo del titolo in copertina v’è spiraglio solo nell’ultimo capitolo del libro, le pagine che lo precedono sono il pretesto per poter raccontare la condizione femminile dell’Ottocento (non molto dissimile dai giorni nostri con qualche passo più avanti). Le donne erano meno di niente, un oggetto, un ornamento, una dote. Si doveva stare al proprio posto, non farsi venire idee strane, non esprimere opinioni, non andare contro la propria famiglia. Anche se erano le convinzioni di quest’ultima ad essere completamente sbagliate. Chi rovesciava l’ordine delle cose era ritenuta pazza.

Quest’uso retrogrado del pensiero lo ritroviamo, seppur in maniera sottile, in ogni aspetto del quotidiano. Non ce ne accorgiamo perché siamo molto bravi a mascherarlo (ps: il termine non è puramente casuale come ogni cosa che scrivo o parola che adopero).

Facciamo finta di essere interessati all’argomento “condizione femminile”, “parità dei sessi”, “no violenza sulle donne”, ma ne siamo spaventati. Anche quegli uomini che si schierano contro il pensiero conservatore fanno fatica ad accettare che non esiste una diversità tra donna e maschio. Ne sono consapevoli (e questo è già tanto), lavorano sul proprio Io interiore per cambiare lo stato delle cose (e li ringraziamo), ma nella rete dei loro discorsi, vuoi o non vuoi (fateci caso), resta sempre aggrappato un residuo di tutte quelle convenzioni che si sono cristallizzate nei secoli (sono secoli, purtroppo! È questo gioca molto, molto a sfavore).

Non voglio soffermarmi sempre sullo stesso argomento, penso che sia giusto parlarne ma penso sia anche giusto non eccedere o farlo senza esasperare troppo gli animi, col rischio di sortire effetti avversi e indesiderati. La questione che mi preme far capire è che qui non si tratta di essere superiori o inferiori a qualcuno, ma che siamo tutti uguali. E non è un discorso da intellettuali, non ha nulla a che vedere con schieramenti politici di destra o sinistra, o un conformarsi all’opinione comune (pure perché se c’è qualcosa a cui conformarsi la sottoscritta non si conforma a nessuno, è abituata a pensare di testa sua senza farsi condizionare dal primo o dalla prima che passa).

È ragionare usando la logica. Sono un essere umano anch’io, con desideri, passioni, rancori, dolori, stizze, bisogni. Voglio essere vista e riconosciuta per quello che sono (per chi sono, non per cosa sono). Non sono un nemico. Se mi vedi come nemico è perché sei abituato a concepirmi e a vedermi come nemico. È un tuo pre-giudizio. Sei tu il tuo nemico, il rivale di te stesso (nell’istante in cui fai germogliare questo tuo pensiero stai creando anche il tuo avversario che ti impedisce di mettere a fuoco quello che hai davanti agli occhi).

Rifletti prima di agire o di parlare. Guarda. Osserva.

È solo usando correttamente la testa che mostrerai la tua superiorità.

Autrice : Carla Iannacone | Categoria : Recensioni | Commenti pubblicati dagli utenti : 0 | Data : 25/02/25

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La carezza (una storia perfetta) di Elena Loewenthal



Ricordati il tempo fra le vignette, è lì che succedono le cose importanti. (Gianrico Carofiglio)

Un libro. Le pagine. La scrittura, i paragrafi, la punteggiatura. L’armonia dello spazio bianco e lo spazio scuro.

E poi c’è il titolo, il sottotitolo e una fotografia in copertina. Una donna, in primo piano, e un uomo al suo fianco che la osserva ma non la tocca. Lo spazio. Il tempo. In bianco e in nero.

Ora immaginate la storia di questi due personaggi, a cominciare dal titolo. La carezza, una storia perfetta.

Non è una storia, ma una carezza. Non è (soltanto) carezza, ma (anche) storia.

La carezza è Pietro Pontani, un professore di filologia il cui sguardo incontra per caso quello di Lea Levi, ricercatrice universitaria di paleografia, durante un convegno a Rossano, in Calabria, dedicato al Codex Purpureus Rossanensis, un manoscritto bizantino. Sia Pietro che Lea sono ambedue sposati, ma subito scatta un’attrazione reciproca che li porta a trascorrere una notte d’amore, che non sarà l’unica. Da lì sino ad un tempo infinito, o “in un infinito altrove” come preferisce definirlo l’autrice, continueranno ad amarsi sino oltre l’eternità, oltre il tempo, oltre ogni sospensione e stupore. Il sentimento non divampa all’istante, cresce negli anni e nella distanza che li separa sino al nuovo incontro stabilito dalle coincidenze e dal destino. La prima volta succede nel 1999, la seconda volta nel 2019. C’è un prima, e c’è un dopo. In mezzo il tempo non esiste. Perché in mezzo ci sono Pietro e Lea.

Quella che sembra una notte di passione, in realtà, è una storia d’amore che si scrive da sola, e a scriverla sono i corpi, i baci, i sospiri, lo stupore, le carezze. Negli abbracci, nel gesto di toccarsi, Lea e Pietro annullano il tempo, lo spazio, persino quello che occupa i propri corpi stando incollati l’una all’altro, questo stare “dentro di te e fuori di me”. È una storia senza le virgole, i punti interrogativi, i punti esclamativi, le parentesi, i paragrafi, il virgolettato, le postille, i capitoli; è un unicum nero, clandestino, una scrittura priva di spazi, di respiro, di pensieri, legata a poche parole che si ripetono come i gesti, ma non per questo noiosi e incapaci di sorprendere.

È uno spazio essenziale. Lea e Pietro nel prima, nel dopo e nella distanza che è solo distanza fisica dei vent’anni, impareranno ad amarsi senza saperlo e senza mai dirselo a voce. “Ti voglio bene” è tutto quello che sa Lea quando si rivolge a Pietro, dopo l’amore. Di lui non conosce nulla, è un estraneo per lei, come lei per lui. Non sanno niente e sanno tutto Pietro e Lea dell’uno e dell’altra. Perché non è la parola che conta, le abitudini, i gusti, ma il sentimento che solo i loro corpi sanno esprimere quando sono insieme, quando sono l’una nelle braccia dell’altro, quando uno è dentro l’altra. “Fermati, aspetta”, le dice Pietro. C’è tempo. Qui, in questa stanza d’albergo, in questo spazio, c’è tutto il tempo del mondo. Non sono più me perché sono fuori da me, non sono più me e lo sono più che mai quando sono con te.

La mia lacuna sei tu, adesso.

Il mio spazio bianco.

E tu?

Non c’è una storia fuori da Pietro e Lea. I vent’anni che trascorrono senza riuscire a vedersi – per una serie di impedimenti sfortunati – sono la “lacuna”, “lo spazio bianco”. La storia inizia, si interrompe e riprende. Il sentimento rimane uguale (lo stupore, la perfezione sta nel fatto che riesca a rimanere intatto nel tempo e nella distanza, come un romanzo che si inizia a scrivere e lo si riprende dopo anni, ma è come se lo si riprendesse dopo mezz’ora), i corpi si riconoscono anche con le strie del tempo perché hanno imparato a parlarsi da soli. I baci non sono il prologo della storia, ma l’epilogo. I preliminari non aprono, chiudono. Tutto avviene al contrario, in maniera spontanea. Con urgenza.

La carezza, una storia perfetta è il romanzo con la R maiuscola. Quello che ognuno aspetta di vivere, non di scrivere (o di leggere). È una carezza che accompagna il lettore, dall’incipit sino alla fine. È una storia che appassiona per come è scritta, per come rende pulsante l’anima tra le pagine che si susseguono, per ciò che permette di vivere e immaginare. Pochissimi libri riescono a trasmettere emozioni così forti e potenti tanto da lasciare tramortiti e affamati di passione (intesa come sofferenza e desiderio).

Nella massima in esergo si fa riferimento al tempo nelle vignette (l’autore si riferisce alle vignette dei fumetti), l’ho scelta apposta perché non c’è niente di più vero di quanto riportato nell’aforisma. Come nei fumetti, anche nei romanzi è importate “lo spazio bianco” che intercorre tra un capitolo e un altro; non è uno spazio vuoto, fermo, che “separa”, è uno spazio che segna un tempo, lo spazio dove scorre il tempo e, di conseguenza, la vita.

È una regola comune a tutti i romanzi, i fumetti e le storie in generale. Se ci pensate l’intera esistenza è composta di tanti spazi bianchi, dove talvolta i respiri si fanno più lunghi, altre volte più corti.

In questo romanzo lo spazio bianco si affaccia ovunque, ed è necessario per comprendere l’importanza del tempo, dell’amore, e di tutto quello che non si può spiegare.

Perché esistono cose nella vita che non si possono spiegare, perché è la vita stessa a non sapersi spiegare. E come la vita, alcune storie, alcuni romanzi, alcuni libri, per quanto ci si sforzi, restano e resteranno impossibili da recensire.

Autrice : Carla Iannacone | Categoria : Recensioni | Commenti pubblicati dagli utenti : 0 | Data : 17/12/24

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La casa dei silenzi di Donato Carrisi


Mi chiamo Pietro Gerber ma qui a Firenze, dove vivo da quando sono nato, tutti mi conoscono come l’addormentatore di bambini. Sono un ipnotista, come lo era mio padre, e con l’ipnosi aiuto i bambini a elaborare traumi e a superare paure e fobie. Non sembrerebbe, ma il mio è un mestiere pericoloso. Perché la mente dei bambini è un labirinto ed è facile smarrirsi e non riuscire più a tornare. Forse è proprio questo che sta succedendo a Matias. Ha nove anni e da tempo ha un sogno ricorrente. Da troppo tempo. Ormai Matias ha paura di addormentarsi, perché in sogno gli fa visita qualcuno che non dovrebbe esistere. Una donna dall’aria triste e vestita sempre di scuro e che non parla mai. La signora silenziosa abita i suoi sogni come uno spettro, come una presenza inquietante che tracima nella realtà. Non dovrebbe essere nient’altro che un sogno, ma allora… Allora perché sento che la signora silenziosa è reale? Allora perché sento nel silenzio il ronzio di un immenso sciame di insetti? Allora perché sento che perfino la mia casa, vuota e solitaria, è infestata da fantasmi? E se la storia della signora silenziosa fosse ancora tutta da scrivere… Come la mia?

Mi chiamo Pietro Gerber, sono l’addormentatore di bambini, e di colpo ho paura di dormire. E ho ancora più paura di stare sveglio.

Questa è la storia di Matias Craveri che, da quanto si evince dalla seconda di copertina del romanzo, ha nove anni ed è tormentato da un incubo ricorrente. Da otto mesi nel suo sonno viene a fargli visita una signora vestita tutta di nero. La donna non parla, non gli fa alcun male; è molto triste e sente il bisogno di raccontargli una storia. Ma forse Matias la sua storia la conosce già.

Questa è la storia di Pietro Gerber, noto come l’addormentatore di bambini, al quale in passato molti genitori hanno affidato dei casi senza via d’uscita. Lui è la loro unica salvezza, l’unica speranza, l’ultimo tentativo che a loro resta per la salvaguardia dei loro cuccioli. Si occupa di estrarre dal loro inconscio ciò che più li spaventa, li angoscia, i mostri e i fantasmi che condizionano la loro vita e che si alimentano attraverso i loro sogni infettando la loro innocenza. È un lavoro di grossa responsabilità. Pietro sa che non sempre può riuscire a salvarli, ma c’è un rischio peggiore: quello di essere coinvolto nel loro mondo onirico e di rimanerne intrappolato. Dovrebbe essere abituato, avere il giusto distacco da ciò che ascolta e da ciò che lo circonda, dovrebbe conoscere quali sono le insidie visto che il signor B., suo padre, esercitava il suo stesso mestiere e lo portava ad essere sempre in contatto con i fantasmi altrui. Eppure, improvvisamente, anche Pietro comincia ad aver paura. Non riesce più a dormire. Ha paura di crollare, ha paura di stare sveglio. Non riesce più a capire dove finisce il confine della realtà con quello dei sogni, ammesso che esista un confine. Non sa se il silenzio da cui viene assalito quando entra in casa sua sia l’ombra dei suoi piccoli pazienti, oppure se a parlargli sia la sua ombra.

Questa è la storia della signora silenziosa di cui non si conosce il nome né il volto, solo la sua espressione che racconta di un vissuto sempre uguale. La signora silenziosa è una donna, abita i sogni di un bambino, un bambino a cui s’aggrappa per sopravvivere, per non essere dimenticata, un bambino per cui urlare. Matias si sveglia angosciato ogni volta che la vede, talvolta urla; dal loro primo incontro ha cominciato a spegnersi, appassendo come fanno i fiori. Non c’è più tempo, confessano Ivo e Susana Craveri a Pietro Gerber, bisogna far presto. Non c’è più tempo per chi, per Matias o per la signora silenziosa? Ma, soprattutto, la signora silenziosa esiste oppure è solo la visione di un bambino?

Questa è la storia di un silenzio, che non dice nulla ma ha tanto da raccontare.

È la storia di tre persone, quattro, sei, dieci e così via.

La casa dei silenzi è il nuovo, ipnotico, sconvolgente e mesto thriller di Donato Carrisi dove a essere in gioco, questa volta, non è solo la felicità e la libertà di un bambino.

Autrice : Carla Iannacone | Categoria : Recensioni | Commenti pubblicati dagli utenti : 0 | Data : 12/11/24

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Il compagno proibito di Sauro Marianelli


Ci sono libri che ti accompagnano per tutta la vita, che anche quando hai finito di leggerli ti restano addosso per sempre.
All’inizio non lo sai, non te ne accorgi, l’incontro avviene casualmente, inconsapevolmente, un po’ come quando ha inizio una storia d’amore che non sai dove ti porterà.
A me è successo con Il compagno proibito di Sauro Marianelli. L’ho conosciuto a undici anni sui banchi di scuola, ed è stato il colpo di fulmine.

Si chiama Goro. Ha all’incirca 13/14 anni (oggi può averne venti, quaranta, sessanta, novanta – al termine della recensione verrà svelato il mistero) in realtà nessuno sa quanti anni ha perché nessuno sa da dove viene, chi sono i suoi genitori, dove abita, cosa studia, se lavora e che lavoro fa.
Intermezzo: ho scritto in realtà perché nella realtà Goro non esiste come tutti i personaggi della letteratura; in questo caso però non mi riferisco solo alla realtà concreta, ma anche alla realtà del romanzo: di Goro nessuno sa niente. È come se non esistesse, i ragazzi della sua età si tengono alla larga da lui, uniformandosi al precetto inderogabile dei genitori di non frequentarlo per nessuna ragione. Per essi Goro è il figlio del Diavolo, un ragazzo che vive per strada senza regole (da qui l’appellativo "proibito"). Eppure il ragazzo non è un molestatore anzi, sa cavarsela da solo, è in grado di gestire qualsiasi situazione autonomamente come un adulto, gira sempre con abiti puliti e in ordine, conosce tantissime cose pur se non ha mai frequentato un istituto scolastico (nonostante ciò sa anche leggere e scrivere) e non è mai stato coinvolto in risse. Ma non è nessuno, perché Goro non ha genitori, non ha amici, non ha parenti.
Damiano, anche lui adolescente, per quanto si sforzi non riesce a conseguire risultati soddisfacenti a scuola. Continuamente vessato da suo padre che lo ritiene un fannullone, il ragazzo vive un costante senso di inadeguatezza che lo porta a compiere azioni inconsuete e dagli esiti disastrosi, specialmente nelle questioni di cuore.
Con Assunta è amore a prima vista. La ragazza, figlia dell’imprenditore Toncelli, appartiene ad una buona famiglia e frequenta lo stesso istituto scolastico di Damiano (anche se classi diverse). Damiano fa di tutto per farsi notare da lei: le infila i bigliettini con scritte frasi d’amore nel cappotto, segue attività extrascolastiche nella stessa parrocchia dove la ragazza fa catechismo, le versa addosso l’acqua santiera – rischiando grosso col padre di costei che la accompagna sempre in macchina sia a scuola sia in chiesa – fa il finto bulletto tra i compagni (finto perché non gli riesce)… il tutto senza incassare la briciola di una vittoria.
La batosta arriva quando scopre che è stato escluso dalla lista degli invitati per il compleanno di Assunta, e decide di farla finita buttandosi dal campanile della chiesa. Ha programmato tutto, ha persino scritto una lettera d’addio, quel che non ha previsto è il seguito di una storia di cui ha buttato giù solo le prime righe del prologo. A dare una svolta è infatti Goro, che lo salva appena in tempo offrendogli il riscatto tanto atteso dal destino: gli propone un viaggio che li porterà alla scoperta di una civiltà antica (quella degli Etruschi) in cambio di uno specchio che vale una fortuna. Damiano, dapprima titubante, accetta di seguirlo. Come tutti i suoi coetanei conosce Goro e sa quel che si dice in giro di lui (anche i genitori di Damiano vogliono che il figlio giri alla larga dal ragazzo), ma non è per via della reputazione di Goro se all’inizio tentenna, ma è perché non sa se fidarsi della sua promessa di lasciargli lo specchio (a sentire Goro, lui è solo interessato a diventare amico degli Etruschi, non gli importa di diventare ricco, lascia a Damiano la fama di milionario).
Il compagno proibito è un romanzo scritto per la platea di adolescenti che si compone pressappoco di duecento pagine che a loro volta suddividono il libro in quattro momenti: una prima parte dove conosciamo Damiano, la sua storia, la sua famiglia, le sue peripezie da dodicenne sfigato, una seconda parte dove Goro fa il suo ingresso nonché il preludio del viaggio che s’apprestano a compiere i due ragazzi, la terza parte relativa al viaggio vero e proprio, e la quarta parte l’epilogo che chiude il cerchio del libro.
Stupisce come una siffatta opera sia scritta – utilizzando anche dello humor – in maniera così semplice ma completa, esaltando quello che è il disagio della pubertà, ovvero la sensazione di non sentirsi mai all’altezza delle situazioni. È un libro puro, tenero, pulito, proprio come i personaggi che lo abitano, che affronta temi attuali ma in un’ottica diversa dal tempo contemporaneo che stiamo vivendo. L’autore scrisse il romanzo quando ancora non c’era internet, quando i social non esistevano, quando mancavano i cellulari, i tablet, i pc, quando la violenza non spopolava in modo così cruento e virale nelle radio e nella televisione (Il compagno proibito è un romanzo editato nel 1981 dalla Fabbri Editore reperibile nei mercatini dell’usato e tra le bancarelle dei libri oltre che online).
È un viaggio tra i pensieri, i dubbi, le emozioni, le considerazioni e le aspettative di Damiano. Non è scritto in prima persona, ma Marianelli è bravo a narrare la storia come se a raccontarla fosse proprio Damiano.
Forse perché fa parte della raccolta dei primi libri che ho letto nel corso della mia adolescenza che Il compagno proibito resta e resterà sempre, con Rebecca la prima moglie, tra i miei libri del cuore. Non sono pazza se dico che con esso mi sono innamorata per la prima volta. Goro è un personaggio straordinario (n.b: stra-ordinario, oltre l’ordinario), è stato il primo ragazzo da cui sono rimasta colpita e affascinata per la sua inesauribile sete di conoscenza, l’incontenibile curiosità verso tutto ciò che lo circonda, la sua capacità di sapersi adattare a ogni cosa, la sua intraprendenza mescolata ad un pizzico di incoscienza, la sua libertà, il suo essere altro dagli altri senza scavalcare chi è diverso da lui. Pur essendo un “emarginato” dalla società, non ha mai provato rancore o senso di vendetta nei confronti di quanti lo hanno tagliato fuori (e sono veramente tanti); lui è forte, sa di potercela fare da solo, ma non se ne fa un vanto. Diventa l’eroe di Damiano oltre che il suo salvatore e il suo mentore.
Goro è un personaggio che mi trascino dietro nel tempo. Come ho detto, l’ho conosciuto tra i banchi di scuola nell’ora di italiano riservata alla narrativa. È stato il mio primo amore, la mia prima cotta. Da allora ho costruito altre storie nel mio immaginario che avevano (e tuttora hanno) come protagonista maschile Goro. Quando devo immaginare una persona di sesso maschile, quel personaggio ha il volto di Goro. Non mi capita con i personaggi degli autori italiani o stranieri, del presente e del passato, ma solo con quelli che sbucano fuori dalla mia penna.
Forse c’è più di una ragione per cui sono portata ad associarlo con “quelli usciti di fantasia”. Chi ha avuto la fortuna di leggere questo preziosissimo libro, chi vorrà leggerlo e chi riuscirà a reperirlo scoprirà perché.
A me non resta altro da fare che tornare a trovarlo di tanto in tanto tra le scansie della libreria quando ho voglia di fargli un saluto. Perché so che non se ne è mai andato (il segreto, ripeto, sta nelle pagine del libro).
Ciao Goro.

Autrice : Carla Iannacone | Categoria : Recensioni | Commenti pubblicati dagli utenti : 0 | Data : 19/10/24

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Le Furie di Venezia di Fabiano Massimi



Fabiano Massimi è uno degli autori che bisogna leggere almeno una volta nella vita.

Non solo per lo stile adoperato nella scrittura, ma soprattutto per la sua competenza e preparazione nel saper raccontare uno dei periodi più bui e tragici della Storia, che hanno come sfondo gli anni dell’ascesa del nazismo e del fascismo. Mai come il tempo che stiamo vivendo c’è più che mai la necessità di narrare gli ignominiosi avvenimenti che si sono succeduti in quegli anni di cui, purtroppo, si ode ancora forte l’eco e i cui resti non sono stati cancellati– come si vuol credere o come si è indotti a far credere – ma, anzi sono prorompenti e rinascenti come ceneri di una fenice.

Le Furie di Venezia è il terzo libro della serie del commissario Sigfried Sauer (i primi due sono L’ Angelo di Monaco e I Demoni di Berlino) il cui plot è incentrato sulla figura di Ida Dalser, la prima legittima moglie del Duce.

Il romanzo si apre nell’anno 1934 dove rivediamo Sauer, Mutti, ovvero Helmut Forster nonché collaboratore del primo, affiancati da Sandor, un poliziotto ungherese, che si trovano a Venezia per sventare un’alleanza tra Mussolini e Hitler. I due dittatori si incontreranno a piazza San Marco in mezzo a una folla di camicie nere per sancire la coalizione tra l’Italia e la Germania. Purtroppo le cose non vanno secondo i piani prestabiliti, così i tre, aiutati da un italiano esperto nel falsificare i documenti, Livio Sarpi (che si scoprirà amico dei fascisti) escogitano un’altra occasione per fermare quella che si rivelerà negli anni una politica scellerata e sciagurata per molte vite portata avanti da un esaltato; ma è nel corso di una serata che nel “pedinare” Mussolini per la laguna di Venezia scopriranno che il Duce nasconde un segreto che, se venisse svelato, potrebbe davvero cambiare le sorti del Paese. Nell’isola di San Clemente insiste un istituto, originariamente un monastero ora un manicomio femminile, dove è rinchiusa Ida Dalser per ordine del Duce. La donna afferma di essere l’unica e la prima moglie legittima del podestà e di aver avuto dallo stesso un figlio che porta il suo stesso nome, Benito Albino Mussolini, successivamente riconosciuto dal padre. Come naturale, il Regime non vuole che la storia venga a galla, per questo motivo insabbia qualsiasi prova o documento che possa far luce su questo aspetto privato del capo del Governo. Sigfried, aiutato da Mutti, Sandor e Johanna Tegel – poliziotta innamorata di Sauer dai tempi dell’incendio del Reichstag – infiltratasi nel manicomio come infermiera, cercheranno di far evadere Ida senza successo con la promessa di evitare a Benito Albino Mussolini le stesse sorti della madre.

La seconda parte del libro si apre nel 1942. Siamo a Milano dove Fausto Armeni, commissario di polizia antifascista e amico di un giornalista del Corriere della Sera, Alberto Graf anche lui antifascista, conduce la sua vita senza tante speranze sul proprio futuro e su quello del Paese. La moglie, Margherita, è ricoverata presso un istituto psichiatrico a Mombello e Armeni non fa altro che scandire le proprie giornate dividendosi tra il lavoro e le visite alla moglie. Durante una di queste succede un fatto inaspettato quanto strano: un paziente sembra essere riuscito a sfuggire alla sorveglianza dei medici e degli infermieri. Si tratta di un ragazzo di ventisette anni che sarà lo stesso Fausto a rinvenire nascosto e mezzo svenuto tra i cespugli del parco del manicomio, un paziente su cui è puntata la massima attenzione di tutto l’istituto – primario per primo –. Il ragazzo è nientedimeno che Albino, quell’Albino, cui Sauer si era fatto carico della promessa a sua madre di risparmiargli lo stesso destino. Il commissario dai capelli biondi e gli occhi cerulei farà tappa anche a Milano dove, insieme a Fausto, a Emilia (segretaria di quest’ultimo) e ai suoi compari (Mutti e Sandor) tra mille peripezie anche qui come a Venezia, faranno di tutto per salvare la vita ad Albino.

È una sensazione strana quella con cui si resta addosso al termine della lettura dei libri di Fabiano Massimi, un’emozione (comune a tutti i suoi romanzi) che non so definire. Ha il sapore dell’amarezza, della sconfitta, dell’impotenza, ma anche della tenerezza. Non sapendo che nome dare a quest’emozione mi viene da dire solo “è molto bello”. E quando qualcosa è bello vuol dire che questo qualcosa ha lasciato un segno.

Quello di Fabiano Massimi è un genere storico, non sbaglio di molto se lo consideriamo il Ken Follett della letteratura italiana solo che, a differenza di quest’ultimo dove vengono dedicate numerose pagine alle passioni, in Massimi questo non avviene concentrato più sulle descrizioni dei luoghi, delle persone, dei fatti. Anche nelle sue opere, come Follett, i sentimenti e gli stati d’animo giocano un ruolo fondamentale, ed è altrettanto bello come riesca a far entrare in empatia il lettore col personaggio attraverso le descrizioni di ciò che rumina l’animo di un personaggio con ciò che lo circonda, sia esso un paesaggio, un oggetto o un ricordo. Sono pochi gli scrittori che riescono a fa questo, e credo che in ciò stia il segreto del successo di questo autore che si sta conquistando (meritatamente) la platea internazionale.

Più di ogni altra cosa mi è rimasta addosso la sensazione di sentirmi braccata, di avvertire il senso dominante e di oppressione del Regime, il controllo smisurato su ogni parola, ogni pensiero, ogni azione, ogni respiro, ogni battito di cuore; e mi sono domandata cos’è che spinge le persone ad osannare (e desiderare!) gente con una mentalità egocentrica, totalmente slegata dalla realtà, che non tiene conto delle esigenze del prossimo e delle diversità (da intendersi in senso lato, come moltitudine di aspetti non come limite o disabilità) e che non accetta né sopporta chi è altro da sé tanto da sopprimerlo o bandirlo.

Non sto affermando che non debbano esserci limiti, ok alle regole ed è giusto che vengano rispettate, ma in un’ottica di equilibrio e di misura senza strafare, anche per ciò che concerne la libertà di una persona.

Come è bene raccontare per non dimenticare, per meglio affrontare le problematiche in un’ottica di confronto e di condivisione senza generare caos, odio e anarchia.

Autrice : Carla Iannacone | Categoria : Recensioni | Commenti pubblicati dagli utenti : 0 | Data : 04/10/24

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