Charlie Brown
"Solo gli imbecilli non hanno dubbi"
"Ne sei sicuro ?"
"Non ho alcun dubbio!"
(Luciano De Crescenzo)
Menu del giorno: fritto misto. Con spoiler come contorno delle portate.
Chi non gradisce è pregato di alzarsi dal tavolo e saltare di qualche blog più avanti, altrimenti attendere il servizio e gustare le pietanze proposte dalla casa.
I piatti del giorno sono un libro e un fumetto. Nome dei piatti? (Immaginate che ve lo domandi con la sua voce baritonale lo Chef Antonino Cannavacciuolo, n.d.a.)
Il pianto dell’alba (di Maurizio de Giovanni, serie de Il commissario Ricciardi) con Vuoto di memoria (Diabolik, inedito del settembre 2001).
Il menu non prevede antipasto, solo stuzzichini per mettere a tacere un po’ lo stomaco.
Primo piatto: Il pianto dell’alba. Ultima ombra per il commissario Ricciardi.
È l’ “ultima” indagine del commissario dagli occhi verdi d’acquamarina dato che il romanzo, il dodicesimo della serie, nelle intenzioni dell’autore doveva essere quello conclusivo.
Luigi Alfredo, fresco di nozze con la sua Enrica, sta vivendo dei momenti bellissimi che riteneva gli sarebbero stati per sempre preclusi dal destino per colpa della sua maledizione (alias “Il Fatto”, ovvero riuscire a vedere le anime di coloro che sono stati ammazzati di morte violenta e di sentire il loro ultimo pensiero prima di morire,). Non solo la sorte gli ha regalato l’amore della sua vita, che contraccambia con la stessa intensità il suo sentimento, ma, a quanto pare, per i due sposini ha in serbo un altro splendido dono: Enrica è incinta e a breve darà alla luce il frutto del loro amore. Nell’attesa che il lieto evento si avvicini, Ricciardi si trova, al contempo, alle prese con l’ultimo caso da risolvere: la vittima questa volta è il maggiore Manfred Kaspar Von Brauchitsch, l’uomo che gli ha dato “filo da torcere” nella storia sentimentale con la sua attuale moglie. Ma le sorprese non finiscono qui perché sembra che ad ucciderlo sia stata la mano di Livia Lucani vedova Vezzi, da sempre innamorata di Ricciardi, con cui aveva una relazione.
Non è dell’indagine che qui ci occuperemo (è superfluo, oltre che retorico e inutile visto che la stragrande maggioranza di voi – almeno me lo auguro – ha letto tutti i libri di de Giovanni) né di analizzare pagina per pagina ogni avvenimento del romanzo, eccezion fatta per il capitolo che chiude il libro in cui Ricciardi vede per la prima volta sua figlia adagiata tra le braccia di una donna che non è sua madre che, invece, gli sta parlando nelle sembianze di uno spirito.
Occhi neri o occhi verdi?
È il “mantra” che accompagna Luigi Alfredo dalla prima all’ultima pagina dell’opera come se, ancora incredulo per la felicità che gli è piovuta addosso, avesse bisogno di restare ancorato coi piedi per terra e ricordare a se stesso che lui, o i membri della sua famiglia, non possono sfuggire alla maledizione, che in qualche modo il dolore convivrà sempre con ciascuno di loro; per questo spera che la nascitura – perché Enrica ha già capito che è una bambina, e se lo dice lei è così – abbia gli occhi neri della mamma. Se così non fosse, e quindi se ereditasse il colore verde dei suoi occhi, allora vorrà dire che la creatura si porterà appresso la sua stessa condanna.
Tuttavia ne Il pianto dell’alba non ci sarà il tempo di scoprirlo (i lettori ne saranno resi edotti solo con Caminito, il primo dei tre volumi che chiude definitivamente il ciclo de Il commissario Ricciardi). Tutto resta sospeso, a mezz’aria, appeso all’istante che dilava la notte, la asciuga dalla gravità e dall’afa del buio. È un momento che taglia di netto la paura, l’ansia, la fatica, il dolore (fisico), come taglia di netto il cordone ombelicale che unisce una vita che muore e un’altra che nasce sul filo dell’alba. Nell’attimo in cui una cede il posto all’altra la morte indietreggia, si fa sparuta, la sua ombra diventa piccola. C’è la luce che avanza ed è venuta per divorarla… all’inizio è solo una debole striscia nel cielo che diviene man mano più forte per reclamare il suo posto nel mondo.
Questo contrasto tra una vita che arriva e un’altra che se ne sta andando mi ha lasciata di sasso, e non perché simili avvenimenti non accadono (purtroppo!) e non sono accaduti in passato durante un parto, ma per due ragioni. Una è l’imprevedibilità, e cioè succede quello che non ti aspetti – anzi che non vuoi proprio – che succeda.
L’altra ragione, se vogliamo, è delle più banali. L’emotività. Il dolore e il coinvolgimento che ho avvertito e vissuto nel dramma di Luigi Alfredo Ricciardi.
Quando nel cuore della notte Enrica si accorge che la bimba non ne vuole più sapere di stare nella pancia della mamma, e pertanto viene accompagnata in ospedale, il lettore intuisce subito che qualcosa non andrà per il verso giusto e che la disgrazia tanto temuta è alle porte. Nei momenti concitati che precedono l’ingresso al nosocomio, e che perdurano fino al tragico epilogo, si vive un’ansia crescente sperando, fino alla fine, di sbagliare le previsioni. Le mani si tengono alle pagine del libro e le si stringe come se si stessero stringendo le barre laterali di un letto, il cuore aumenta i battiti e si va in iperventilazione. Gli occhi si spalancano, si comincia a sudare, hai la tremarella… borbotti frasi senza senso e nel frattempo pensi “come hai potuto?” (domanda che compare anche nel primo capitolo del romanzo), “come è possibile? No, non puoi fare questo…no…no… non adesso” (le domande sono rivolte all’autore, n.d.a.) il tutto mentre ti senti stringere un nodo alla gola.
Ma non puoi muoverti, non puoi. Non puoi perché speri di aver letto male. Allora torni indietro, ricomincia il calvario (mannaggia alla pupazza! Ma chi me l’ha detto a me stamattina di portamme appresso ‘sto libro e rovinarmi questa bella giornata di sole…), ari-sudi, ari-tremi, sbatti i pugni, le mani, i pedi (solo in senso metaforico però perché sei paralizzata dall’angoscia) e se ti fosse rimasto metà respiro ti metteresti pure a urlare (ma siccome hai esaurito tutte le energie vitali resti impalata come un’ebete e diventi tutt’uno con la panchina dove sei seduta, stile statua di Gabriele D’annunzio a piazza della Borsa a Trieste).
Invece non urli, perché la tragedia alla quale hai appena assistito ti lascia svuotata, tristemente svuotata, tanto che – dopo aver chiuso il libro – ti metteresti a girovagare per ore in uno dei giardini più famosi di Roma sul colle Aventino, in una calda giornata di agosto, desiderando solo che tutta quella sofferenza e quel dispiacere ti scivolino di dosso invece di restarti incollati sulla pelle e nell’animo come magneti, e che l’abbraccio del sole ti scaldi e ti ricomponga il cuore dopo che è scesa la mannaia (queste, in sintesi, le sensazioni che ho vissuto al termine della lettura).
Copertina di Sergio e Paolo Zaniboni
Secondo piatto: Diabolik, Vuoto di memoria.
Anche in questo caso l’episodio non è dei più allegri, sia per la sua caratterizzazione sia per la sorte dei personaggi coinvolti nella vicenda.
A colpo concluso Diabolik ed Eva, per un contrattempo, rimangono intrappolati nella tana del nemico: un nemico molto pericoloso, violento e spietato. L’unica alternativa che hanno per salvarsi è che solo uno dei due si dia alla fuga, senza aspettare l’altro. Diabolik decide che sia Eva a farlo, così Lady Kant scappa decisa a liberare il suo uomo quanto prima. Quello che non sa, purtroppo, è che nel tempo che le occorre per preparare un piano Lui verrà torturato, seviziato, pestato e ridotto a un fantoccio dai suoi carcerieri; alla sua riconsegna Diabolik – a causa delle botte e dei colpi ricevuti – non ricorda neanche più chi è, dove si trova, quali sono i suoi trucchi, i suoi rifugi, la formula per fabbricare le maschere, i marchingegni infernali per tenere lontano la polizia… è come un bambino, incapace di agire e reagire, che deve ricominciare a imparare tutto da capo. Tutto da zero.
Eva è straziata dal dolore nel vederlo così. Diabolik è irriconoscibile. Trascorre interi giorni senza perderlo di vista e insegnandogli ogni cosa con infinita pazienza.
Quando si accorge che l’uomo che vive accanto a lei non è il suo compagno ma uno che gli somiglia molto (e che alla fine si innamorerà di lei ma che, consapevole che Eva non lo amerà mai perché nel suo cuore c’è solo Diabolik, si toglierà la vita) vuole vederci chiaro, così ritorna nella tana del lupo per scoprire che fine abbia fatto Lui e per andare a riprenderselo. E anche qui… colpo di scena. Accade l’impensabile.
Eva viene messa al corrente dagli aguzzini che Diabolik sta molto male: il criminale giace in un letto in coma irreversibile. Anche se riuscisse a tirarlo fuori di lì, avrebbe poche possibilità di sopravvivenza considerate le condizioni in cui è ridotto. A quel punto ad Eva resta poco da fare, se non piangere in silenzio e assistere inerme e impotente alla fine del suo uomo mentre gli rimane accanto, e lo osserva su un asettico giaciglio bianco incosciente e privo di forze…
Una tavola tratta da Vuoto di memoria, disegni di Enzo Facciolo
Le storie (o i piatti) che ho scelto di raccontare sono uguali perché ciò che li accomuna è il sentimento di angoscia e di drammaticità che permea la vita dei protagonisti (trascinando in maniera molto, molto sentita anche il lettore/spettatore negli eventi), con la differenza che mentre nel fumetto la vicenda si conclude, al solito, positivamente, nonostante gli autori facciano patire il lettore fino all’ultima – ultimissima – pagina riguardo alle sorti di Diabolik (considerate che ogni albo diaboliko è composto da 122 pagine, siamo a pagina 119 e abbiamo Diabolik che è ancorain coma, comunque Diabolik in coma irreversibile nun se po’ senti’), nel romanzo di Maurizio de Giovanni Ricciardi non avrà la stessa fortuna. Quando sembrava fosse finalmente giunta un po’ di felicità anche per lui, il destino lo farà precipitare di nuovo nel baratro strappandogli il suo grande amore, pur se gliene regalerà un altro in un’altra veste che lo vedrà alle prese col ruolo di padre.
Caminito, Soledad e Volver infatti non sono altro che una finestra sul mondo della piccola Marta Ricciardi, baronessina del casato dei Malomonte.
Tre romanzi che per quanto apprezzati, poiché contrassegnati dalla dolcezza, dalla sensibilità d’animo e dalla signorilità dello scrittore la cui voce è riconoscibile in ogni rigo di ogni suo scritto, potevano essere risparmiati mettendo un punto alle vicende del commissario più affascinante della letteratura con Il pianto dell’alba.