Charlie Brown
"Solo gli imbecilli non hanno dubbi"
"Ne sei sicuro ?"
"Non ho alcun dubbio!"
(Luciano De Crescenzo)
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Maddalena Bonsignore Scordìa, per tutti Malèna, è una bellissima donna siciliana sposata ad Antonino Scordìa partito per il fronte a combattere la guerra. Siamo a Castelcutò, un paese immaginario della Sicilia e il tempo in cui avvengono i fatti è quello della seconda guerra mondiale.
Malèna è un film di Giuseppe Tornatore del 2000, pellicola che lanciò Monica Bellucci, nel ruolo della protagonista, nel panorama delle attrici internazionali, e forse per questo l’opera più nota della modella/attrice umbra. E non solo.
È indubbio che la pellicola di Tornatore mette in risalto le armoniose curve e la perfezione delle linee del corpo della Bellucci la quale, a doti fisiche, non è pari a nessun altra donna (ma questo è solo un parere di chi scrive, da ritenersi quale giudizio meramente soggettivo e non universale), tuttavia non ci occuperemo di fare lo scanner alla bella Monica – anche perché il suo corpo parla da solo e già è stato detto tanto – ma di analizzare quelli che sono i veri aspetti del lungometraggio, messi in secondo piano a causa della esondante bellezza della Bellucci che offusca i messaggi contenuti nel film.
Dunque, c’è questa donna. Sola, perché il marito è partito per la guerra. Bellissima e desiderata da tutti gli uomini del paese, ragazzini compresi e alle prese con le prime turbe ormonali dell’adolescenza.
Ci sono due fattori che giocano a sfavore di Malèna (molto a sfavore): il fatto di essere una donna e di essere anche tanto, troppo, molto bella. La sua bellezza, più che una dote, è una disgrazia. Tutte le donne di Castelcutò la invidiano e ne sono gelose, e l’invidia, si sa, rende le persone molto cattive per non dire malvage. L’invidia genera anche pettegolezzo oltre che cattiveria, e infatti la bella Malèna non ha rapporti con nessuno perché nessuna vuol farsela amica (stupidità mista a ignoranza) scegliendo la strada più semplice che è quella di sparlarle dietro le spalle ogni volta che attraversa il paese per sbrigare le commissioni. La donna vive quindi una solitudine totale: non ha il marito accanto, non ha amiche, né sorelle e fratelli, ogni tanto va a far visita al padre anziano per portargli la spesa o preparargli un pasto caldo.
La solitudine diventa una terza disgrazia per Malèna, il peso di essa si aggrava e diventa condanna perché inflitta dalle sue concittadine che, con le loro malelingue, le fanno terra bruciata intorno. A lungo andare il pettegolezzo diventa diffamazione e il padre di Malèna, stanco delle continue voci che girano sul conto della figlia, decide di interrompere ogni rapporto con lei.
Ma le sventure per la donna non finiscono qui. Dal fronte giunge la notizia che Antonino è morto in guerra e con i bombardamenti in atto, tra le tante vittime, ci resta secco pure il padre di Malèna.
Rimasta sola e senza risorse, la donna comprende, suo malgrado, che l’unica maniera per tirare avanti è quella di dare concretezza alle parole che sino a quel momento erano solo dicerie sulla sua persona: complice la sua bellezza, si prostituisce.
Ancor prima che accade questo avvenimento Malèna viene persino violentata dal suo avvocato che l’aveva difesa in una causa (da lei vinta) per presunto adulterio (occorre dire che Malèna resta sempre fedele al marito, conduce una vita ritirata e cammina per strada sempre ad occhi bassi per non alimentare fantasie negli uomini). Tutto quello che si vede nel film – e che, ad un occhio scrupoloso, dovrebbe fungere solo da contorno come l’insalata che accompagna le portate nei piatti – è solo un prodotto di fantasticherie, immaginazioni, sogni, desideri, affanni, di Renato (il ragazzino per cui Malèna diventa una vera ossessione) e poi del resto della truppa appartenente al sesso adulto, tant’è che quando la donna arriva a offrirsi realmente agli uomini del suo paese per campare (mi vien da dire al gruppo dei pervertiti, ma sarebbe un pregiudizio il mio, oltre che un’offesa gratuita a gente che non ha nessuna colpa, qui comunque il discorso si allunga quindi lasciamo sta’) le scene dove compare “più scoperta” cominciano a ridursi.
È infatti sul volgere del finale che vengono a galla i messaggi lanciati dal film.
Innanzitutto vorrei far notare quanto sia agghiacciante la scena in cui le compaesane di Malèna la trascinano in piazza per picchiarla e pestarla a sangue con un odio e una violenza esasperati sino all’inverosimile. Unico scopo, se così vogliamo definirlo per quelli che erano i tempi della guerra anche se la violenza non dovrebbe mai avere una giustificazione, dovrebbe essere la rabbia di queste donne nei confronti di una concittadina che ha tradito collaborando con i tedeschi ma queste, più che per il già specificato scopo che utilizzano come esimente, si avventano su di lei come squali per sfogare le loro frustrazioni, l’invidia e la gelosia repressa per tutto il tempo. Arrivano persino ad umiliarla tagliandole i capelli tra le lacrime e i singhiozzi di Malèna che, totalmente indifesa, non sa come sfogare la propria disperazione. Non dice nulla, come ha sempre fatto. Urla soltanto. Urla il proprio dolore, sporca, insanguinata, col moccio al naso, le ferite al viso, le ginocchia sbucciate e coi capelli rasati. Guarda ad una ad una le sue carnefici girando in tondo al cerchio che le fa da muro. Col suo grido è come se dicesse “Cosa volete da me? Non è colpa mia se questa bellezza mi è stata donata, non è colpa mia se i vostri uomini mi desiderano, io non ho mai fatto nulla con loro, non li ho mai provocati, non ci ho mai parlato. Se l’ho fatto adesso, l’ho fatto perché mi era necessario per vivere. Sono una donna e sono sola perché sono rimasta vedova e orfana, non ho mai avuto l’appoggio di nessuna di voi presenti. Perché tanto odio?”
Dopo questo spiacevole episodio Malèna è costretta a fuggire a Messina, consapevole che Castelcutrò non avrà più nulla da darle poiché ha perso tutto (dignità, reputazione, denaro), soprattutto ora che la guerra è finita.
A questo punto accade qualcosa che rovescia le carte in tavola. Antonino, il marito di Malèna, da tutti ritenuto morto fa ritorno al suo paese. La prima cosa che fa è tornare a casa dalla moglie ma, con sgomento, si accorge che la casa coniugale è stata occupata dagli sfollati di guerra, e che Malèna è dovuta scappar via per cercare fortuna a Messina dato che a Castelcutrò tutti – persino chi prima la anelava sognandola notte e giorno – le hanno voltato le spalle. Antonino apprende tutto questo da una lettera che gli fa avere Renato, il quale non è mai riuscito a togliersi Malèna dalla testa, ed è l’unico di tutti gli abitanti di Castelcutrò che ha compreso le sventure che la povera donna ha dovuto subire dalla gente per via della sua bellezza. L’uomo decide così di partire anche lui per Messina per ricongiungersi alla moglie salvo fare ritorno, un anno dopo, assieme a Malèna e di attraversare con lei a braccetto, e a testa alta (lui solo perché lei mantiene sempre gli occhi bassi), le stesse strade e le stesse vie che la donna percorreva tutti i giorni da sola sotto gli sguardi degli uomini affamati del suo corpo e delle donne che la vituperavano.
Adesso, agli occhi di queste ultime, Malèna è un’altra persona. Quando si reca al mercato le donne la salutano e le regalano persino gli abiti e il cibo, nonostante Malèna voglia pagarle. Sono loro le prime a rivolgerle la parole e a dirle “buongiorno”, e con grande sorpresa Malèna risponde al saluto con “buongiorno” (queste signore sono le stesse che l’avevano pestata a sangue).
L’intera vicenda di Malèna viene raccontata dal giovane Renato, che solo alla fine del film avrà modo di interagire per la prima e unica volta con la donna aiutandola a raccogliere le arance che le erano scivolate dalla borsa della spesa. La scena finale è quella di Malèna che si allontana di spalle per far ritorno a casa, reintegrata nella sua dignità e nella comunità di Castelcutrò.
Per essere una pellicola del 2000, il film di Tornatore presenta molti tratti patriarcali. In primo luogo la figura della Bellucci (messa tanto in risalto) suggerisce che la donna sia solo un oggetto (e non un soggetto) da desiderare e da usare a proprio piacimento. In secondo luogo che il compito della donna sia solo quello di essere una brava e devota moglie che aspetta il proprio uomo a casa, che deve occuparsi solo di cucinare, rassettare la casa, fare la spesa e, al massimo, andare a far visita ai propri parenti. Inoltre deve camminare a testa bassa (come se camminare a testa alta possa recare offesa a qualcuno) e deve vestirsi in modo tale da non attirare occhiate e sguardi indiscreti. In terzo ed ultimo luogo non è bene che una donna viva da sola, qualunque siano le ragioni anche quelle che esulano dalla volontà di quest’ultima, tanto più se è bella e attira il maschio come la vista del sangue attira gli squali.
Due scene mi fanno venire l’orticaria: il pestaggio di Malèna in pubblico sotto l’indifferenza di tutti, uomini compresi (qui sì che scatta la perversione, a differenza di prima, e la prevaricazione) e la considerazione negativa che si aveva di questa donna che diventa più che positiva quando la si vede con un uomo al suo fianco.
Non mi voglio dilungare troppo sul tema (specie sull’ultimo punto), e non perché poi mi tacciano di fare apologia sulle donne e sul femminismo in generale, non mi va di fare la maestrina, né la sapientona, né la vittima (pure perché non mi sento di essere nessuna delle tre). Voglio solo far riflettere su un argomento che, secondo me, andrebbe spogliato di tanto retaggio che ci trasciniamo dietro da secoli (scusate ma voi le cose vecchie – dove per vecchie intendo le cose che non funzionano più, da non confonderle con gli oggetti a cui siamo legati per un valore affettivo – le buttate oppure ve le conservate come cimeli? Lo stesso procedimento dobbiamo utilizzarlo per quanto concerne i rapporti sociali. Si butta via ciò che non è più utile per passare al nuovo che frutterà più del suo predecessore. Non avete tutti i cellulari di nuova generazione? E perché riuscite a sbarazzarvi del cellulare ogni settimana e non riuscite a disfarvi di certi preconcetti e pregiudizi che vi danno un’aria da vetusti bacucchi? Stesso discorso valga per le macchine, la playstation, il pc e tutte le altre diavolerie informatiche).
Se ci pensate, alla fin dei conti, oggetti e pensieri sono la stessa cosa perché si possono cambiare. E quando cambi una cosa non la cambi mai con un’altra peggiore, ma sempre con un’altra cosa migliore che possa darti una maggiore funzionalità e utilità.
Date retta a una povera scema: ogni tanto fate cambiare aria al vostro cervello. Imparate ad allenarlo.
È più importante scolpire il cervello anziché i muscoli del corpo (o della faccia) che col tempo avvizziscono.
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Credits: scena tratta dalla pellicola di Miloš Forman del 1975 Qualcuno volò sul nido del cuculo (One Flew Over The Cuckoo's Nest)
da sinistra: Will Sampson (Grande Capo Bromden), Josip Elic (Bancini) e Jack Nicholson (Randle Patrick McMurphy)
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Che senso frustrante di frustrazione!
Ogni sera una scudisciata dietro le spalle…
Chi è?, chiedo in allerta e con rassegnazione,
eccola là: un’altra pena, la spada di Damocle che non mi abbandona.
Mi sono recato in ospedale per farmi curare,
c’era da attendere e dopo che sono entrato mi hanno detto che non c’è più speranza
così ho preso a schiaffi il personale
pugni, spintoni, fino a spaccargli le ossa
non c’è competenza, non c’è ascolto, non ci sono soldi.
Che senso frustrante di frustrazione!
Tutti i giorni dietro a un bancone, a uno sportello, a una scrivania
a contatto con le persone
l’azienda ha operato i tanto temuti tagli e siamo rimasti in cinque
siamo subissati di richieste, turni, incombenze, lamentele, rimproveri
di finanziamenti non ce ne sono, lo stipendio è fermo a mille.
C’ho un senso di frustrazione che non puoi capi’
fidati quando ti dico che non puoi capire,
perché se non lo senti sotto pelle, se non lo vivi tutti i giorni nell’indifferenza
nella povertà, nell’impotenza e nella disperazione
non ha senso parlarne
tu mi metti limiti dove limiti non dovrebbero essercene
censuri la mia libertà di espressione, la mia identità, i miei sogni
offrendoli come merce di scambio senza valore a chi è indegno di prendere il mio posto.
La mia frustrazione è grande e non la puoi capire
devo solo accontentarmi se non posso avere figli,
se non ho una famiglia perché mi hanno abbandonato in mezzo ad una strada,
se non posso amare alla luce del sole perché chi è diverso diventa colpa e vergogna.
Devo leccarmi le ferite da sola
al 112 e al telefono rosa mi hanno detto di stare tranquilla
ma temo per la mia incolumità e per quella dei miei bambini,
la Legge è dalla sua parte a me nessuno m’ascolta
solo perché la genetica ha scelto per me e ha scelto che dovevo nascere donna.
Ho cucito addosso il peso della frustrazione
a scuola, nel gruppo delle chat, con i compagni, in palestra, al catechismo
sono il pupazzo di tutti,
a casa i miei pensano a come fare entrare i soldi e a sperperarli per le vacanze e nelle feste con gli amici,
gli insegnanti non se ne curano,
mia sorella pensa a farsi bella davanti ad uno specchio
e mio fratello a confezionarsi l’ennesima canna.
Sono opulento di frustrazione perché sono precario da anni
dopo esser passato tra milioni di lavori sognavo un matrimonio, una famiglia, l’indipendenza
invece a 55 anni sono ancora a carico dei miei genitori.
Sono un professionista e la mia colpa è la partita IVA
lo Stato rimesta ogni giorno nelle mie tasche
dice pe’ nuove opere, iniziative, benefici, aiuti, solidarietà, fingendosi interessato ai problemi dei cittadini
con una maschera di perbenismo percula le mie responsabilità.
Sono stato nuociuto, truffato, offeso, percosso,
hanno assassinato il mio DNA
ma Dike è solo dei potenti non dei deboli, non è uguale per tutti
pecunia non olet.¹
Ho un senso frustrante di frustrazione,
ogni sera prima di mettermi a letto, e dopo in ogni momento,
quel nerbo è sempre più violento,
picchia con fare sicuro e non sbaglia un colpo,
sai che c’è? Adesso urlo io con tutto il fiato che ho in corpo.
Grido
così me senti
perché è il solo modo per dirti che ci sono anch’io,
che voglio attenzione, che voglio rispetto per il mio dolore,
in fondo non ti chiedo nulla
l’amore e la comprensione non hanno prezzo
ma impara a riconoscerne il valore.
E poco importa se do spettacolo
se sarò un altro pezzo da dare in pasto alla stampa
a fraintendere sono sempre i fraintesi
non sono io l’artefice del costume che diventa esempio.
Che senso frustrante di frustrazione!
Ogni sera una scudisciata dietro le spalle
nun ce sta niente da fa’
tocca porta’ avanti ‘sta baracca.²
Credits: l’illustrazione è di Luciano De Crescenzo, dal libro Luciano De Crescenzo disegnatore, catalogo della mostra al Nilo Museum Shop, Enciclopius Edizioni 2015
¹Pecunia non olet letteralmente «I soldi non puzzano», risposta dell’imperatore romano Vespasiano al figlio Tito che lo rimproverò per una tassa imposta sugli orinatoi, nel gergo comune diventata un’espressione che sta a significare di non fare troppe sottigliezze circa la provenienza del denaro.
² L’elenco delle circostanze nella “filastrocca” non è da considerarsi esaustivo.
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Si tu vales bene est, ego valeo.
Felicità.
Uhm…ok. Ma cos’è la felicità?
Non cominciamo a canticchiare la canzone di Al Bano e Romina Power per piacere perché l’argomento è serio.
Dunque, se ci basiamo solo su quello che è riportato in questo post it senza considerare altre chincaglie – vi piace la parola chincaglia? – se ne ricava che la felicità non è qualcosa di strettamente personale, ma che dipende da qualcuno.
Esempio: sto bene se trascorro del tempo col mio/a migliore amico/a, con i miei nonni, con mia sorella/fratello, col mio compagno/a, marito/moglie, fidanzato/a, (o amante per chi ce l’ha) e quindi sono felice. Sto bene se la persona, o le persone, che ho accanto mi fanno sentire accolta, che ci tengono alla mia salute, alla mia compagnia, al mio benessere. E quindi sono felice.
Sto bene se ho molti followers, se mi cercano sui social, se chattano con me, condividono. Alias sono felice.
Sto bene se faccio un lavoro che mi piace, che mi soddisfa e mi realizza. Ergo, sono felice.
Tutti esempi di felicità legata ad un soggetto esterno al proprio sé. Perché dico questo? Perché se si considera la felicità come caratterizzata in questo post it, vuol dire non tenere in conto che la felicità ha altri colori, altre forme e altri suoni.
Ascolto un CD di Carmen Consoli. Mi piace. Gradisco il testo delle sue canzoni, la musica, il mood, le immagini che mi evoca. Sono felice.
Acquisto del terriccio e vasi per piante, ripulisco il giardino dalle erbacce per conferirgli un aspetto più decoroso, utilizzo le cesoie per potare e annaffio. Il giardinaggio è un mio hobby. Mi piace. Sono felice quando mi immergo nel verde della natura.
Ho comprato i biglietti per visitare Machu Picchu, vivrei solo per viaggiare ed esplorare nuovi mondi e orizzonti perché mi fa stare bene. Sono felice.
Stamane mi sono recata in libreria per comperare l’ultimo libro dell’autore Tal dei Tali che ho intenzione di leggere, ho scambiato due chiacchiere con la commessa, mi ha sorriso, sono stata bene, ho con me il libro (che non è cosa da poco) e sono felice.
Dicembre 2023. Passeggio sulla spiaggia. Ho il mare di fronte e mi vien voglia di farmi un bagno. Mi spoglio e mi butto in acqua (anche se è gelata). Avevo voglia di farlo: sto bene. Sono felice.
Desidero andare a teatro, al cinema. Non c’è nessuno che mi accompagna (chissenefrega) ma, quando mi siedo tra le poltrone sono felice perché sto bene.
Potrei continuare in eterno con gli esempi. Morale della storia: serve davvero qualcuno per essere felici?
Ora, una definizione della felicità vera e propria non la so dare perché è un concetto (oltre ad essere uno stato d’animo) molto soggettivo, però più vado avanti e più mi convinco che non esiste una felicità oggettiva ma tante felicità soggettive, e gran parte di queste felicità hanno un denominatore comune: la presenza di qualcuno.
Mo’ (dal latino mox che vuol dire ambress ambress) chi è questo qualcuno non è dato saperlo. Diamo un occhio al post it.
“Felicità è sapere che “qualcuno” ti sta cercando e ti troverà”.
A me me pare ‘na minaccia, stile “Io vi troverò” di Pierre Morel del 2008 con Liam Neeson (lo stalking di tutti i meme che circolano su internet, pe’ favve capì). Una cosa è certa: se è il postino che mi viene a notificare una multa, o l’Ufficiale giudiziario che se ne viene con una citazione a giudizio o un’ingiunzione di pagamento… io nun ce sto eh! Non abito in Italia e in nessun altro posto del mondo. Sono apolide.
Qualcuno può farmi notare “scusa, c’è scritto felicità quindi non sono messaggeri di cattive notizie” e io ribatto “la felicità è di chi mi sta a cerca’, no la mia”. No, no… nun me fido. E poi c’è scritto “nascondino”. NA-SCON-DI-NO. Che nasconde ‘sto tizio che mi viene a cerca’? Che vo’? Il mio Principe Azzurro è latitante da anni (in realtà è morto, ma questo è un altro paio di maniche).
Ecco, il Principe Azzurro. E qui si apre un’altra bella storia, o favola. Cosa vi piace di più? (Un giorno vi racconterò la fiaba del demente travestito da Scream, oggi no però).
Se c’è una cosa che non racconterei mai alle mie figlie sono le favole. Rimbambiscono.
Mi dispiace davvero tanto scrivere questa cosa perché quando ero piccola a raccontarmi le favole era mia nonna. Erano delle favole bellissime, la mia preferita era quella della Principessa Ribelle. Diceva sempre che le somigliavo molto. Ricordo che era la favola che mi facevo raccontare più spesso. Mi è rimasta impressa nella memoria un’immagine di questa Principessa che scendeva le scale col vestito da sposa tutto stracciato mentre si affaccendava a mettere da parte della legna per l’inverno. Era caduta in miseria perché, ovviamente, essendo una ribelle, si era ribellata al padre che aveva deciso per lei una vita che non le piaceva, e quindi l’aveva cacciata dal castello e doveva trovare il modo di sopravvivere. Come tutte le favole, anche questa aveva il suo bel lieto fine (la Principessa che incontra il Principe Azzurro che poi la sposa) e la protagonista si riconciliava con la famiglia.
Non ho mai capito se la fiaba era una di quelle favole “preconfezionate” alla Cappuccetto Rosso, Biancaneve, Cenerentola, oppure se mia nonna si divertiva a inventarle (mi sta venendo in mente un ricordo, ma è meglio che lo scaccio prima che diventi troppo melodrammatica).
Mia nonna era una romanticona. Le piacevano tanto le favole. Guardava con passione La bella addormentata nel bosco (avevo la videocassetta) ed era attenta a tutti i dettagli. Avesse avuto possibilità economiche ai suoi tempi sarebbe diventata una bravissima autrice di storie per bambini.
Comunque.
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“Non è difficile credere in Dio quando si è bambini. La religione è una fiaba abbastanza semplice” (cit. da Un giorno tutto questo sarà tuo di Lidia Ravera, ed. Bompiani).
C’è una relazione tra la religione e le favole? Penso che le religioni (tutte le religioni) siano delle grosse ca…volate. Non esiste un Dio buono e un Dio cattivo. Non esiste nessun Dio. Se Dio esistesse non ci sarebbe tanto odio sulla Terra, che ogni giorno accresce sempre più attraverso le guerre, i femminicidi, gli stupri, assalto ai medici nei nosocomi e adesso anche i parricidi (mamme e papà occhio quando andate a letto, i vostri figli potrebbero essere degli efferati killer. Post scriptum: cioè vi rendete conto? Al posto della buonanotte tra genitori e figli, qua ora bisogna andare a letto con le armi sottocoperta per difendersi da eventuali aggressioni del sangue del proprio sangue).
Dio esiste? (domanda).
Se il Padreterno esistesse da uno stupro non nascerebbe un bambino. Quello è odio, violenza, sopraffazione, dominio. Male. Non è amore. Secondo i precetti della religione (quella cattolica), il concepimento avviene quando c’è amore, ergo siccome in uno stupro non può MAI esserci amore, Dio non esiste (se capita che spunti un esserino è per una questione puramente biologica).
Se Dio esistesse non ci sarebbero situazioni difficili in talune famiglie (bambini con tumori e altre malattie che colpiscono non solo gli infanti ma anche gli adulti), non ci sarebbe tanto dolore (sia fisico che emotivo) e tante altre situazioni che non vi sto ad elencare altrimenti famo notte.
Dire che Dio esiste è come dire “credo nel destino” (quindi che famo? Aspettiamo il miracolo di San Gennaro?). Stiamo tutti in attesa (in attesa di che, poi? Mi ci metto pure io nel girone di quelli seduti nella sala d’attesa) come se aspettassimo che davvero la felicità ci piova dal cielo, ma non è così che funziona. Se uno non si alza e se la va a prendere da solo la felicità (e/o non se la costruisce con le proprie mani) allora campa cavallo che l’erba cresce! Qua state tutti ad aspetta’ a Dio: aspetto qualcuno, aspetto un lavoro, aspetto un miracolo, aspetto il Principe Azzurro o la Principessa sul pi….. (apro parentesi: per tornare al discorso di prima, se Dio esistesse farebbe sì che anche due persone simili si incontrassero per scrivere una bella storia d’amore senza divorzi, senza separazioni, mandate a fare in… capo al mondo belle gite turistiche in un posto super conosciutissimo e sovraffollato tipo bus urbani o metro cittadine dove non respiri più per quanto stai stretto, circondato da puzze. Chiudo parentesi).
Postilla per i credenti.
“A me il sesso mi dà l’urto di vomito. Il fatto stesso che per fare sesso maneggi quella parte di te e della tipa che sta con te da cui rifluiscono i materiali di scarto del corpo, piscio escrementi sperma mestruo… il fatto che a nessuno sia venuto in mente di separare il piacere dalle funzioni del ricambio, di sistemare gli organi addetti al godimento in una sezione delicata e profumata della persona umana, è la prova dello scellerato senso dell’umorismo di Dio” (cit. di Lidia Ravera, ibidem ut supra).
Dopo questo “dolce” ma realistico pensiero, credo proprio che la scrivente si asterrà dal fare sesso per i prossimi dieci anni (fa senso eh? Fa senso visto così, non avevo mai considerato questa cosa sotto questo punto di vista che poi, perdonatemi la volgarità, non si tratta solo di maneggiare quegli organi ma anche di – lo dico sottovoce, ziiiiitto, zitto, zitto – far combaciare gli strumenti indispensabili al godimento e al concepimento); e comunque questo a riprova che se Dio esiste ha davvero un sarcastico senso dell’umorismo (ribadisco e sottolineo: la felicità è la sua che si diverte a prenderci in giro, sempre nell'ipotesi che esista sul serio uno sceneggiatore così).
In sintesi (avviciniamoci al finale che è meglio va’): non so cosa sia la felicità, ognuno dà una definizione personale, ognuno vede le cose per quello che è o per come le sente; Isabel Allende dice “non vediamo le cose come sono, le vediamo come siamo” ma, per quelli che vogliono approfondire l’argomento, consiglio di leggere “Il tempo e la felicità” di Luciano De Crescenzo. Troverete ottimi spunti e ottime riflessioni (e una piacevolissima compagnia). Tenete bene a mente che il Maestro vi intratterrà con questo e tanti altri argomenti non alla maniera stupida e delirante della sottoscritta ma con garbo, eleganza, dolcezza, raffinatezza e anche con una dose di genuino umorismo di cui solo un grande uomo come lui era capace.
A proposito, in tema di religione lui non era né credente né agnostico, era sperante. Sperava, appunto, che ci fosse qualcosa (e Qualcuno) dopo la vita. Chissà se le sue speranze hanno poi trovato riscontro…
E, mi raccomando, non andate appresso alle favole.
C’era una volta un demente travestito da Scream…
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Si tu vales bene est, ego valeo.
La notizia ha un che di formidabile, oltre ad essere originale. All’inizio pensavo fosse un fake, si sa internet ne è pieno, poi la faccenda mi ha strappato un sorriso.
Sto parlando del ladro che è stato sorpreso a rubare dal proprietario in un appartamento a Roma, nel quartiere Prati, e sarebbe riuscito pure a farla franca se non fosse stato “catturato” da un libro (si noti bene: ho usato apposta il verbo catturare perché poi il ladro è stato catturato dalla polizia, un arresto che gli è valso due volte insomma).
Il “colpevole” della storia si chiama Gli dèi alle sei. l’Iliade all’ora dell’aperitivo di Giovanni Nucci (l’autore, in un’intervista a Il Messaggero ha rivelato di voler regalare il libro al reo in modo che potesse finire di leggerlo in carcere). In sintesi, il ladro è entrato in un attico del signorile quartiere romano quando, rovistando tra i monili, gli abiti, i preziosi in casa, è stato attratto dal testo poggiato sul comodino della camera da letto; dopodiché, accomodatosi in terrazza, ha cominciato a leggere (qui tutti i dettagli).
A prescindere se l’opera sia interessante, piacevole, o meno (è un fatto che dovrò appurare), il fatto che questo tizio abbia cominciato a leggere perdendosi tra le pagine, e dimenticando il motivo per cui si è intrufolato nell’appartamento, è veramente bello.
Sia chiaro, non sto dicendo che rubare sia bello né che lo sia trovarsi un ladro in casa, ma il modo in cui è stato sorpreso dal proprietario (e soprattutto perché è stato sorpreso) è il più bel lieto fine di una storia (o di un reato, che non porta mai a nulla di buono né per la vittima né per il reo).
La vicenda infatti ha del paradossale, sembra davvero l’incipit di un romanzo alla Jonas Jonasson (vi pare che un ladro si mette a leggere mentre ruba?). Dico solo che a me la notizia è piaciuta tantissimo perché sono convinta – e questa storia ne è la dimostrazione – come ho sempre ribadito, ripetuto, sottolineato, evidenziato, enunciato, che i libri salveranno il mondo.
Dico di più. In questo caso, un libro non solo ha salvato la vittima dal furto, ma ha salvato anche il ladro, in tutti i modi in cui un uomo può essere salvato (parafrasando una battuta di Titanic di James Cameron).
I libri non sono solo àncora di salvezza, sono speranza di un futuro migliore.
Perché la speranza è l’ultima a morire.
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