Charlie Brown

"Solo gli imbecilli non hanno dubbi"
"Ne sei sicuro ?"
"Non ho alcun dubbio!"
(Luciano De Crescenzo)


Malèna di Giuseppe Tornatore



Maddalena Bonsignore Scordìa, per tutti Malèna, è una bellissima donna siciliana sposata ad Antonino Scordìa partito per il fronte a combattere la guerra. Siamo a Castelcutò, un paese immaginario della Sicilia e il tempo in cui avvengono i fatti è quello della seconda guerra mondiale.

Malèna è un film di Giuseppe Tornatore del 2000, pellicola che lanciò Monica Bellucci, nel ruolo della protagonista, nel panorama delle attrici internazionali, e forse per questo l’opera più nota della modella/attrice umbra. E non solo.

È indubbio che la pellicola di Tornatore mette in risalto le armoniose curve e la perfezione delle linee del corpo della Bellucci la quale, a doti fisiche, non è pari a nessun altra donna (ma questo è solo un parere di chi scrive, da ritenersi quale giudizio meramente soggettivo e non universale), tuttavia non ci occuperemo di fare lo scanner alla bella Monica – anche perché il suo corpo parla da solo e già è stato detto tanto – ma di analizzare quelli che sono i veri aspetti del lungometraggio, messi in secondo piano a causa della esondante bellezza della Bellucci che offusca i messaggi contenuti nel film.

Dunque, c’è questa donna. Sola, perché il marito è partito per la guerra. Bellissima e desiderata da tutti gli uomini del paese, ragazzini compresi e alle prese con le prime turbe ormonali dell’adolescenza.

Ci sono due fattori che giocano a sfavore di Malèna (molto a sfavore): il fatto di essere una donna e di essere anche tanto, troppo, molto bella. La sua bellezza, più che una dote, è una disgrazia. Tutte le donne di Castelcutò la invidiano e ne sono gelose, e l’invidia, si sa, rende le persone molto cattive per non dire malvage. L’invidia genera anche pettegolezzo oltre che cattiveria, e infatti la bella Malèna non ha rapporti con nessuno perché nessuna vuol farsela amica (stupidità mista a ignoranza) scegliendo la strada più semplice che è quella di sparlarle dietro le spalle ogni volta che attraversa il paese per sbrigare le commissioni. La donna vive quindi una solitudine totale: non ha il marito accanto, non ha amiche, né sorelle e fratelli, ogni tanto va a far visita al padre anziano per portargli la spesa o preparargli un pasto caldo.

La solitudine diventa una terza disgrazia per Malèna, il peso di essa si aggrava e diventa condanna perché inflitta dalle sue concittadine che, con le loro malelingue, le fanno terra bruciata intorno. A lungo andare il pettegolezzo diventa diffamazione e il padre di Malèna, stanco delle continue voci che girano sul conto della figlia, decide di interrompere ogni rapporto con lei.

Ma le sventure per la donna non finiscono qui. Dal fronte giunge la notizia che Antonino è morto in guerra e con i bombardamenti in atto, tra le tante vittime, ci resta secco pure il padre di Malèna.

Rimasta sola e senza risorse, la donna comprende, suo malgrado, che l’unica maniera per tirare avanti è quella di dare concretezza alle parole che sino a quel momento erano solo dicerie sulla sua persona: complice la sua bellezza, si prostituisce.

Ancor prima che accade questo avvenimento Malèna viene persino violentata dal suo avvocato che l’aveva difesa in una causa (da lei vinta) per presunto adulterio (occorre dire che Malèna resta sempre fedele al marito, conduce una vita ritirata e cammina per strada sempre ad occhi bassi per non alimentare fantasie negli uomini). Tutto quello che si vede nel film – e che, ad un occhio scrupoloso, dovrebbe fungere solo da contorno come l’insalata che accompagna le portate nei piatti – è solo un prodotto di fantasticherie, immaginazioni, sogni, desideri, affanni, di Renato (il ragazzino per cui Malèna diventa una vera ossessione) e poi del resto della truppa appartenente al sesso adulto, tant’è che quando la donna arriva a offrirsi realmente agli uomini del suo paese per campare (mi vien da dire al gruppo dei pervertiti, ma sarebbe un pregiudizio il mio, oltre che un’offesa gratuita a gente che non ha nessuna colpa, qui comunque il discorso si allunga quindi lasciamo sta’) le scene dove compare “più scoperta” cominciano a ridursi.

È infatti sul volgere del finale che vengono a galla i messaggi lanciati dal film.

Innanzitutto vorrei far notare quanto sia agghiacciante la scena in cui le compaesane di Malèna la trascinano in piazza per picchiarla e pestarla a sangue con un odio e una violenza esasperati sino all’inverosimile. Unico scopo, se così vogliamo definirlo per quelli che erano i tempi della guerra anche se la violenza non dovrebbe mai avere una giustificazione, dovrebbe essere la rabbia di queste donne nei confronti di una concittadina che ha tradito collaborando con i tedeschi ma queste, più che per il già specificato scopo che utilizzano come esimente, si avventano su di lei come squali per sfogare le loro frustrazioni, l’invidia e la gelosia repressa per tutto il tempo. Arrivano persino ad umiliarla tagliandole i capelli tra le lacrime e i singhiozzi di Malèna che, totalmente indifesa, non sa come sfogare la propria disperazione. Non dice nulla, come ha sempre fatto. Urla soltanto. Urla il proprio dolore, sporca, insanguinata, col moccio al naso, le ferite al viso, le ginocchia sbucciate e coi capelli rasati. Guarda ad una ad una le sue carnefici girando in tondo al cerchio che le fa da muro. Col suo grido è come se dicesse “Cosa volete da me? Non è colpa mia se questa bellezza mi è stata donata, non è colpa mia se i vostri uomini mi desiderano, io non ho mai fatto nulla con loro, non li ho mai provocati, non ci ho mai parlato. Se l’ho fatto adesso, l’ho fatto perché mi era necessario per vivere. Sono una donna e sono sola perché sono rimasta vedova e orfana, non ho mai avuto l’appoggio di nessuna di voi presenti. Perché tanto odio?”

Dopo questo spiacevole episodio Malèna è costretta a fuggire a Messina, consapevole che Castelcutrò non avrà più nulla da darle poiché ha perso tutto (dignità, reputazione, denaro), soprattutto ora che la guerra è finita.

A questo punto accade qualcosa che rovescia le carte in tavola. Antonino, il marito di Malèna, da tutti ritenuto morto fa ritorno al suo paese. La prima cosa che fa è tornare a casa dalla moglie ma, con sgomento, si accorge che la casa coniugale è stata occupata dagli sfollati di guerra, e che Malèna è dovuta scappar via per cercare fortuna a Messina dato che a Castelcutrò tutti – persino chi prima la anelava sognandola notte e giorno – le hanno voltato le spalle. Antonino apprende tutto questo da una lettera che gli fa avere Renato, il quale non è mai riuscito a togliersi Malèna dalla testa, ed è l’unico di tutti gli abitanti di Castelcutrò che ha compreso le sventure che la povera donna ha dovuto subire dalla gente per via della sua bellezza. L’uomo decide così di partire anche lui per Messina per ricongiungersi alla moglie salvo fare ritorno, un anno dopo, assieme a Malèna e di attraversare con lei a braccetto, e a testa alta (lui solo perché lei mantiene sempre gli occhi bassi), le stesse strade e le stesse vie che la donna percorreva tutti i giorni da sola sotto gli sguardi degli uomini affamati del suo corpo e delle donne che la vituperavano.

Adesso, agli occhi di queste ultime, Malèna è un’altra persona. Quando si reca al mercato le donne la salutano e le regalano persino gli abiti e il cibo, nonostante Malèna voglia pagarle. Sono loro le prime a rivolgerle la parole e a dirle “buongiorno”, e con grande sorpresa Malèna risponde al saluto con “buongiorno” (queste signore sono le stesse che l’avevano pestata a sangue).

L’intera vicenda di Malèna viene raccontata dal giovane Renato, che solo alla fine del film avrà modo di interagire per la prima e unica volta con la donna aiutandola a raccogliere le arance che le erano scivolate dalla borsa della spesa. La scena finale è quella di Malèna che si allontana di spalle per far ritorno a casa, reintegrata nella sua dignità e nella comunità di Castelcutrò.

Per essere una pellicola del 2000, il film di Tornatore presenta molti tratti patriarcali. In primo luogo la figura della Bellucci (messa tanto in risalto) suggerisce che la donna sia solo un oggetto (e non un soggetto) da desiderare e da usare a proprio piacimento. In secondo luogo che il compito della donna sia solo quello di essere una brava e devota moglie che aspetta il proprio uomo a casa, che deve occuparsi solo di cucinare, rassettare la casa, fare la spesa e, al massimo, andare a far visita ai propri parenti. Inoltre deve camminare a testa bassa (come se camminare a testa alta possa recare offesa a qualcuno) e deve vestirsi in modo tale da non attirare occhiate e sguardi indiscreti. In terzo ed ultimo luogo non è bene che una donna viva da sola, qualunque siano le ragioni anche quelle che esulano dalla volontà di quest’ultima, tanto più se è bella e attira il maschio come la vista del sangue attira gli squali.

Due scene mi fanno venire l’orticaria: il pestaggio di Malèna in pubblico sotto l’indifferenza di tutti, uomini compresi (qui sì che scatta la perversione, a differenza di prima, e la prevaricazione) e la considerazione negativa che si aveva di questa donna che diventa più che positiva quando la si vede con un uomo al suo fianco.

Non mi voglio dilungare troppo sul tema (specie sull’ultimo punto), e non perché poi mi tacciano di fare apologia sulle donne e sul femminismo in generale, non mi va di fare la maestrina, né la sapientona, né la vittima (pure perché non mi sento di essere nessuna delle tre). Voglio solo far riflettere su un argomento che, secondo me, andrebbe spogliato di tanto retaggio che ci trasciniamo dietro da secoli (scusate ma voi le cose vecchie – dove per vecchie intendo le cose che non funzionano più, da non confonderle con gli oggetti a cui siamo legati per un valore affettivo – le buttate oppure ve le conservate come cimeli? Lo stesso procedimento dobbiamo utilizzarlo per quanto concerne i rapporti sociali. Si butta via ciò che non è più utile per passare al nuovo che frutterà più del suo predecessore. Non avete tutti i cellulari di nuova generazione? E perché riuscite a sbarazzarvi del cellulare ogni settimana e non riuscite a disfarvi di certi preconcetti e pregiudizi che vi danno un’aria da vetusti bacucchi? Stesso discorso valga per le macchine, la playstation, il pc e tutte le altre diavolerie informatiche).

Se ci pensate, alla fin dei conti, oggetti e pensieri sono la stessa cosa perché si possono cambiare. E quando cambi una cosa non la cambi mai con un’altra peggiore, ma sempre con un’altra cosa migliore che possa darti una maggiore funzionalità e utilità.

Date retta a una povera scema: ogni tanto fate cambiare aria al vostro cervello. Imparate ad allenarlo.

È più importante scolpire il cervello anziché i muscoli del corpo (o della faccia) che col tempo avvizziscono.

Autrice : Carla Iannacone | Categoria : Riflessioni | Commenti pubblicati dagli utenti : 0 | Data pubblicazione : 02/10/24

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Intervista a Renato Chiocca e Clara Galante



Processo per stupro è uno spettacolo anomalo perché si ha l’impressione di non assistere ad uno spettacolo ma ad un processo. Nelle note di regia si legge che l’intento è quello di diventare testimone di un linguaggio adoperato quarant’anni fa in un processo penale e di reinventarlo attraverso la parola recitata. Ho come l’impressione però che non sia solo questo…sbaglio, o c’è dell’altro?

C: Sicuramente oltre al linguaggio l’intento è continuare a provocare rispetto all’argomento, perché tanti passi avanti sono stati fatti anche se non abbastanza. Innanzitutto si parla di femminismo perché questo processo, quarant’anni fa, fu aperto per la prima volta alle telecamere e fu clamoroso perché parteciparono associazioni di donne che volevano essere considerate parte civile. Allora io farei un distinguo tra la femminista e il maschilista: la femminista è colei che si batte per avere eguali diritti, il maschilista è colui che invece vuole prevaricare. Ecco su questi due principi si batte l’esercizio del potere, non solo dal punto di vista umano della donna, ma anche dei diritti. Quindi è una provocazione a tutto tondo.
R: Ѐ' qualcos’altro nella misura in cui chi accetta l’evocazione del teatro come una realtà. La presenza del teatro sta nella sua attualità, e succede/accade davanti allo spettatore. Miracolosamente la testimonianza può spogliarsi, diventa ancor più viva grazie al teatro. continua a leggere

Autrice : Carla Iannacone | Categoria : Interviste | Commenti pubblicati dagli utenti : 0 | Data pubblicazione : 01/10/24

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Processo per stupro, la battaglia silenziosa e omertosa della disuguaglianza socioculturale


La legge è uguale per tutti.
​È questo ciò che si legge appena si mette piede nel foyer della seconda balconata del Teatro Eliseo, allestita a mo’ di aula di tribunale. Tre tavoli, due disposti sulla sinistra, uno disposto sulla destra.
​I primi due per gli avvocati, uno per gli imputati, l’altra per la parte lesa. L’altro, quello sulla destra, per il Presidente del Collegio giudicante che presiederà il processo. Un processo per stupro.
Perché questo non è uno spettacolo. continua a leggere

Autrice : Carla Iannacone | Categoria : Recensioni | Commenti pubblicati dagli utenti : 0 | Data pubblicazione : 01/10/24

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Lo spettacolo della morte



"Nella vita la cosa più attraente è lo spettacolo della morte."

   (Alexandre Dumas, Il Conte di Montecristo Feltrinelli Editore Universale Economica I Classici 2014)

Autrice : Carla Iannacone | Categoria : Aforismi | Commenti pubblicati dagli utenti : 0 | Data pubblicazione : 01/10/24

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Diabolik - Sepolti vivi (albo n. 19 del 1970) e Delirio omicida (albo n. 19 del 1980)



Sepolti vivie Delirio omicida.

Sono due albi “diabolici” rispettivamente del 1970 e 1980. Due storie che mi hanno colpita per le ragioni che qui svelerò.

Partiamo dal primo.

Diabolik e Ginko si ritrovano casualmente in mano ad una banda di balordi decisi a farli fuori. Sempre casualmente Diabolik viene scoperto da questa banda, di cui aveva preso il posto del capo, e fatto prigioniero. L’intento dei balordi è quello di vendicarsi dopo la beffa subita da quest’ultimo, che li aveva chiusi in casa per scappare col bottino del furto. Il grande criminale viene quindi trascinato in un vecchio monastero, malmesso e abbandonato, ma il destino vuole che una sera Ginko si trovi a percorrere in macchina la strada dove esso è situato, e che si fermi per dare un’occhiata dopo aver visto dei bagliori provenire dal negletto convento. Poiché al suo interno erano appostati i balordi di cui sopra, Ginko si ritrova ad essere catturato anche lui e sepolto vivo assieme al suo nemico.

Occorre qui una specifica. Il titolo dell’albo è Sepolti vivi, in realtà la banda criminale non ha intenzione di seppellirli, ma solo di tenerli prigionieri per il tempo necessario a ricattare Eva Kant ed impossessarsi dei tesori di Diabolik, dopodiché sia l’ispettore sia Diabolik verranno uccisi (questo per diritto di cronaca).

I due eterni nemici riescono però a fregare la banda. Alleandosi e unendo le loro forze (la frase è da prendere alla lettera) trovano la maniera e il cunicolo dove fuggire; finalmente, una volta liberi la “tregua” amica terminerà (Diabolik la definisce proprio così) e torneranno ad essere i nemici di sempre.

Fulcro della storia è l’alleanza che “stipulano” Diabolik e Ginko per poter sfuggire alle ire della banda. Il fine dei due è diverso: Diabolik punta a tornare dalla sua donna e ad essere di nuovo libero di agire per altri furti, Ginko per catturare la banda e ripulire Clerville dalla gentaglia come loro.

Seppure gli scopi dei due uomini sono simildiversi (la necessità primaria è quella di tornare liberi, anzitutto), non si può non notare il grande rispetto e la sconfinata stima che Diabolik nutre per il suo più acerrimo nemico (una caratteristica del Re del Terrore che nella maggior parte degli albi viene sottolineata spesso): la prima volta evita che uno dei componenti della banda faccia del male a Ginko (in una vignetta si vede che è pronto per sferrare un pugno in faccia al poliziotto) così, per scongiurare il rischio, allunga una gamba facendolo inciampare. In quest’occasione l’ispettore dirà a Diabolik che avrebbe preferito affrontare il delinquente piuttosto che esser stato difeso da Lui; Diabolik, per tutta risposta, gli confesserà che voleva solo farlo arrabbiare (una scusa più che banale per nascondere la verità che Ginko intuisce).

Il secondo passaggio della storia è caratterizzato dai continui sguardi che i due si lanciano l’un l’altro per studiarsi a vicenda, e capire esattamente cosa l’uno stia pensando dell’altro arrivando ambedue alle conclusioni giuste. Il terzo passaggio – quello che per me sottolinea questo aspetto di stima reciproca e quindi, di fatto, il più bello – è il supporto sia psicologico sia fisico, che criminale e poliziotto si scambiano costantemente, messo in risalto dai disegni del Maestro Flavio Bozzoli e dalle chine di Glauco Coretti. In particolar modo, in una vignetta si vede solo la stretta di mano tra Ginko e Diabolik (la vignetta è eloquente perché la presa è poderosa e nel disegno è ben tratteggiata) quando il primo aiuta il secondo a salire dopo che si è fatto male scivolando a terra.

Ci sarebbe poi un quarto passaggio, quando al termine dell’avventura Ginko e Diabolik tornano liberi, che per alcuni potrebbe non rivestire la stessa rilevanza delle scene della prigionia ma che tuttavia svela, ancora una volta, il lato umano e il senso etico del Criminale. Diabolik osserva Ginko e dice tra sé “La tregua è finita” quasi fosse dispiaciuto che quel legame che li ha resi complici, sebbene per poche ore, si sia spezzato così presto. Da ultimo, al rifugio con Eva non mancherà di nuovo di esternare la sua ammirazione per Ginko stupendosi ad alta voce della tempra del suo nemico.

Il secondo albo, Delirio omicida, ha come anno di pubblicazione il 1980.

Prima scena. Un’umile famiglia raccolta a tavola per l’ora della cena. Perché umile? Perché se le sorelle Giussani vengono ricordate con tanto di onori, magnificenze e squilli di tromba è perché non solo sono riuscite a dar vita ad un personaggio che raccoglie tutt’oggi un grande successo nazionale e internazionale accrescendo ogni giorno il numero dei fan e dei followers, ma soprattutto perché non trascuravano nulla destinando una particolare attenzione ai dettagli.

La famiglia in questione sta cenando con un piatto di polenta che suscita lamentele da parte della figlia e con relativo rimbrotto da parte della madre (“Stai sempre a lamentarti, c’è gente che non ha neanche da mangiare”) quando una banda di teppisti fa irruzione nella casa. Senza alcun motivo, solo per il gusto di divertirsi e seminare il panico, cominciano a spaccare tutto, a tracannare vino, a prendere a schiaffi la padrona di casa e a sparare colpi di pistola per aria. Uno finisce con l’ammazzare il padre che aveva provato a difendere la famiglia avvicinandosi al fucile per puntarlo contro la banda e metterli in fuga. Poi questi ammazzano pure la madre, e alla figlia rimasta ofana spetta una fine non allettante che le autrici lasciano solo immaginare.

Il giorno seguente Eva ascolta in tv una trasmissione in cui un giornalista intervista un sociologo chiedendogli il perché di questa furia omicida da parte di questi teppisti che, da un po’ di tempo, seminano la paura in città con episodi di violenza. Il modus operandi è sempre lo stesso: la violenza, che si manifesta con uccisioni, disordini, stupri. Indirizzata sia a famiglie ricche, sia a famiglie povere.

Eva, alquanto scossa e interessata all’argomento (Diabolik prova a destare la sua attenzione ma poi si scusa vedendola concentrata a seguire il programma), chiede al suo compagno cosa ne pensa, il quale non sa darle una risposta. Intanto la maschera di Valentina Brush è pronta e quella stessa sera Eva entrerà in azione per sostituirsi alla moglie di Guido Brush e scoprire gli allarmi che neutralizzano la cassaforte. Ed è proprio in detta circostanza che Eva si troverà faccia a faccia con questi delinquenti vivendo momenti di puro terrore…

Cos’è che mi ha attratto in queste due storie? Nella prima il grandissimo rispetto che Diabolik e Ginko hanno l’uno nei confronti dell’altro sebbene siano nemici. Nelle storie diabolike sono tante le occasioni che vedono l’Ispettore e il Criminale allearsi per risolvere talvolta dei casi spinosi (tipo intrighi internazionali e altro) e talvolta per aiutarsi a vicenda a farla franca. In ambedue le circostanze nessuno dei due ha mai approfittato della “fortuna” capitatagli sotto mano per far fuori il rivale, anzi. Solo parole di profonda stima e di ammirazione. Un esempio è la vignetta qui sotto dove Diabolik, nei panni di Gerardo, esprime a parole tutto ciò che pensa di Ginko.


Una tavola tratta da La lunga notte (albo n. 26 del 1968)


Nella seconda storia ciò che mi ha colpita è l’attualità del tema: la violenza e tutti i fatti ad essa connessa e generati dalla stessa. Si tenga presente che Delirio omicida è un albo del 1980 (quindi stiamo parlando di 44 anni fa), e stupisce pensare come una storia di tal genere sia così aderente alla realtà dei giorni nostri che sembra scritta per il 2024.

Non spetta a me il compito di elencare i numerosi fatti di cronaca nera da cui veniamo sommersi per 365 giorni all’anno, avvenimenti che hanno come protagonista la violenza in tutte le sue forme: stupri, omicidi, risse, lesioni, minacce, che sembrano esercitati senza motivo per il solo gusto di far parlare di sé e per puro divertimento. Nel fumetto tutto si risolve per il meglio perché – a me scappa un sorriso amaro per il paradosso di quanto sto dicendo – c’è un Criminale che fa Giustizia, purtroppo nella realtà le cose sono un pochino diverse.

Dovrebbe far riflettere anche l’alleanza tra Ginko e Diabolik nell’albo Sepolti vivi considerato che siamo in guerra (al momento c’è una guerra in Occidente e una guerra in Oriente, ma è più corretto dire che anche dove non c’è guerra fisica o materiale c’è guerra mediatica e spirituale). Quella tra Ginko e Diabolik è una battaglia onesta, pulita, fondata sull’equilibrio, sul rispetto e sulla sincerità senza tanti trabocchetti o sotterfugi, la stessa cosa di quanto avviene nello sport che ci insegna come l’avversario non è mai un nemico da abbattere, ma una persona con cui confrontarsi per scoprire lati nascosti di sé e, ove possibile, migliorarsi. La persona che si ha di fronte diventa strumento per correggere i propri errori e, nel contempo, chi ci sta di fronte apprende da noi i suoi di errori per poterli rettificare. In una parola, diventiamo utili l’uno per l’altro.

Se proprio non si può fare a meno della guerra, almeno impariamo a saperci confrontare col prossimo con la giusta misura senza tanti spargimenti di sangue e di vite umane.

Autrice : Carla Iannacone | Categoria : Recensioni | Commenti pubblicati dagli utenti : 0 | Data pubblicazione : 01/10/24

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Perché rubi i miei libri?


Autrice : Carla Iannacone | Categoria : Pensieri | Commenti pubblicati dagli utenti : 0 | Data pubblicazione : 30/09/24

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